Sono passati esattamente centocinquanta anni da quando Dostoevskij ha presentato al mondo il primo dei suoi grandi lavori, un romanzo poliziesco, psicologico, analitico, ideologico, ma soprattutto un romanzo chiave della modernità. Dostoevskij è il primo cui interessa concretamente non il rapporto dell’individuo con la società, ma quello con se stesso ed è il primo a rompere definitivamente con l’illusione dell’unità della persona e a imporre la realtà dell’uomo come luogo enigmatico dove coabitano in contrappunto e sofferenza tensioni contraddittorie. Di qui forse la critica che non di rado lo ha connotato come scrittore sgraziato, privo di misura, di riservatezza, di eleganza, di controllo, soprattutto se accostato al suo grande, aristocratico, competitor, Tolstoj.

Ma ci sono momenti e luoghi in cui si alza improvviso il vento della follia, dell’ideologia assassina e allora non c’è niente da fare, bisogna tornare a Dostoevskij per provare a capirci qualcosa. La lettura de I demoni ad esempio, il romanzo più notturno di Dostoevskij, scritto nei primi anni settanta dell’Ottocento, è fra le più inquietanti che possano capitare, profetizzando un’umanità livellata da ricatti e delazioni al gradino più basso, tutti schiavi e nella schiavitù tutti uguali. Un incubo da cui i lettori contemporanei rifuggirono, salvo poi recuperarlo nel Novecento, a tragedie avvenute e riconoscerlo come visionario.

Ma Delitto e castigo è altra cosa e fu accolto come una rivelazione. Il primo dunque dei suoi cinque romanzi, scritto anni dopo la “rottura siberiana”. Sono note le vicende che lo portarono in Siberia. Arrestato nel 1849 per aver partecipato a circoli d’intonazione socialista e aver letto pubblicamente testi proibiti, fu condannato a morte tre mesi dopo e salvato in extremis, come racconta nella lettera al fratello Michail: “Oggi,22 dicembre, ci hanno portato in piazza Semjonov. Lì a tutti noi hanno letto la condanna a morte… poi hanno messo i primi tre al palo per l’esecuzione. Io ero il sesto, ci hanno chiamato a tre per tre, io ero nel secondo gruppo e non mi restava che un minuto da vivere. Io ho ricordato te, fratello, tu soltanto eri nella mia mente… Finalmente è suonato il segnale, i legati al palo sono stati portati indietro e ci hanno detto che Sua Maestà Imperiale ci aveva fatto grazia della vita… La vita, ora capisco, è dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori di noi. Accanto a me ci saranno degli esseri umani, anche ai lavori forzati, ed essere uomo fra gli uomini e restarlo per sempre, in qualsiasi sventura non avvilirsi, non perdersi d’animo, ecco in cosa consiste la vita, ecco il suo compito. Ne ho preso coscienza. Questa idea è entrata nella mia carne e nel mio sangue… Quella testa che creava, che viveva della vita superiore dell’arte è stata tagliata via dalle mie spalle… Guardando indietro penso quanto tempo è stato speso inutilmente, quanto ne è andato perduto in errori, futilità, incapacità di vivere… La vita è un dono, adesso, cambiando vita, rinasco in una nuova forma… Rinascerò migliore. Ecco la mia speranza, tutto il mio conforto”.

La nuova vita era quella disgraziatissima dei lavori forzati in Siberia, oppressa da mille traumi d’indicibile grevità, contro cui si sgretolano i propositi di dignitoso contegno. Incatenato a una marmaglia di banditi, delinquenti, stupratori con cui è costretto a condividere tutto, nello stesso fetido stanzone, dopo un’iniziale fase di disperazione prova tuttavia a risalire, a mettersi in gioco, a entrare in relazione e fa delle scoperte. La prima è che quando la coscienza cala le sue difese, l’altra parte, con cui non facciamo i conti, irrompe di prepotenza ed esige udienza, la seconda è che il popolo, questo sconosciuto, col quale si trova gomito a gomito, anche se qui nella sua versione peggiore, non è affatto l’astrazione romantica della sua giovinezza da intellettuale filantropo. Quel popolo sottomesso, sempre buono e paziente in nome del quale si era beccato una condanna che, per un pelo, non era stata a morte, era fatto da individui strani, oscuri che vivevano di idee incomprensibili, niente affatto concilianti, ostili a chi intendeva aiutarli, acculturarli. Quel popolo non voleva essere compatito, educato e neppure apprezzava chi cercava di migliorare la sua sorte, ci vedeva sotto un imbroglio e poi era affezionato al potere costituito anche se brutale e a tutte le sacre istituzioni gerarchiche. Dostoevskij si accorge insomma che gli uomini, visti da vicino (e da che vicinanza… non un centimetro di spazio per sé – “Vivevamo in mucchio, tutti insieme come aringhe in scatola”), sono altra cosa da quelli immaginati.

Finisce per lui l’epoca dell’utopia sentimentale e, per ciò che lo riguarda personalmente, anche dell’amor proprio, delle strategie difensive; la visione del mondo che lo aveva accompagnato e protetto fino allora si rivela troppo rigida, angusta, inadatta ad affrontare le inattese svolte della sua vita. È costretto a cambiare. Lo sforzo per uscire dall’isolamento e trovare con i nuovi compagni una modalità d’interazione non da intellettuale, né da pari, ma il più possibile naturale e quindi vera diventa la chiave, oltre che del suo successo relazionale, quella che gli permette di accedere al mondo inesplorato della propria interiorità, precondizione al suo destino di grande scrittore. Si accorge che l’uomo non è affatto una faccenda semplice come la facevano gli estimatori allora in voga del “tutto è plasmato dall’ambiente”, che lo si può addomesticare fino a un certo punto, ma prima o poi la sua voglia di libertà salta fuori, magari voglia di essere cattivo, di agire contro i propri interessi.

Il tema della libertà come scelta individuale a dispetto di tutto diventerà il tema centrale dell’intera sua riflessione e il fuoco che anima l’agire di non pochi suoi futuri personaggi.

Anche per il protagonista di Delitto e castigo si tratta, in fondo, di una questione di libertà, libertà, in questo caso, di cambiare identità. Raskol’nikov, studente poverissimo in una Pietroburgo sottoproletaria anni sessanta dell’Ottocento si inventa un’idea folle per provare a essere un altro. Vuole uscire a tutti i costi dallo stato di annichilimento per in cui gli stenti e i complessi di inferiorità l’hanno gettato e per farlo decide di vivere secondo nuovi parametri di Bene e di Male da lui stesso ridefiniti. Quando lo incontriamo ha già interrotto gli studi, le lezioni private con cui si mantiene e se ne sta tutto il giorno sdraiato nella sua topaia a rimuginare. Dorme vestito e quando la padrona gli porta del tè o qualcosa da mangiare nemmeno se ne accorge. Tutto è pronto in lui da un pezzo perché la sua mente prostrata accolga una qualche nuova, seducente teoria che dia sollievo al suo malessere e offra giustificazione razionale al suo bisogno di ricollocarsi socialmente. Lo spirito del tempo gli dà una mano. In quegli anni era infuocata la polemica contro le strutture, i codici, la morale dell’organizzazione imperiale. Bastava immettersi nella generale ondata di scontento antizarista per sentirsi moderni e partecipi di un clima di rinnovamento. Raskol’nikov non aveva grandi chances di approdare a una vita diversa, non apparteneva alla classe privilegiata per censo e d’altra parte era abbastanza fine e istruito per non sentirsi parte della massa informe. Per uscire dall’angolo e riabilitarsi a se stesso imbocca una strada che gli pare risolutiva: aderire idealmente a un gruppo di appartenenza elitario, quello dei pochissimi innovatori selezionati, esseri eccezionali, non soggetti alle leggi comuni, ai quali tutto è permesso, perché sono le guide dell’umanità, devono condurla verso grandi mete, scavalcando le regole convenute. Ecco, vuol essere uno di loro, un Napoleone che, per raggiungere i suoi traguardi luminosi, non si ferma davanti a nulla. Si tratta solo di trovare il coraggio per gettarsi in questa impresa che non a tutti è consentita. Ma lui ha bisogno di fare questo esperimento, di saper al più presto se appartiene a questa schiera eletta dei benefattori dell’umanità o se non è altro che un pidocchio come tutti, un misero frammento del gregge umano. Queste le premesse filosofiche elaborate in totale solitudine nella sua tana, senza che alcuna controparte dialogante intervenga a ridimensionarne le fantasie di potenza. La traiettoria del delirio procede spedita verso la prova di iniziazione, superata la quale dovrebbe stendersi la sconfinata prateria della libertà e del Bene. La prova di iniziazione è la seguente: accoppare la vecchia usuraia di quartiere, egoista e cattiva, rubarle i soldi, tenerne un po’ per sé, una minima parte, per non dipendere più dalla pensione di sua madre e distribuire il resto a chi ne ha veramente bisogno. Insomma si concede una sorta di diritto al delitto, visto che è fatto per motivi di altruismo. In sostanza trasferisce il problema del denaro che lo affligge su un altro piano, morale, quello del diritto a possedere denaro. Cento, mille buone azioni si possono organizzare con le ricchezze che la vecchia aveva destinato al monastero perché pregassero per la sua anima, vite umane salvate dalla strada, dal vizio, dalle malattie veneree ecc. Più ci rifletteva e più si convinceva che il ragionamento non faceva una piega. In verità ogni tanto si faceva viva una vocina dentro di lui, un’obiezione interna, neanche un’obiezione, ma una sorta di stupore di se stesso: “… ma è mai possibile che veramente io pigli l’accetta e mi metta a colpirla sul capo, a fracassarle il cranio, che io debba scivolare nel sangue tiepido e appiccicoso, forzare la serratura e rubare tutto tremante, poi nascondermi coperto di sangue, con l’accetta…”

Il fatto è che Raskol’nikov era un giovane per bene, oltre che di aspetto aristocratico, educato e anche generoso, sensibile, di sentimenti nobili, cui ripugnava ogni violenza, ripugnava il sangue, ma quella era appunto la sua prova personale da superare per passare dall’altra parte, per diventare libero. In verità ciò che Raskol’nikov non sapeva era che da tempo, da prima del delitto, aveva già perso ogni libertà. Da quando aveva optato per il “tutto lecito” se il fine è grandioso, dando ospitalità all’idea assassina, forze sconosciute si erano messe in moto dentro di lui togliendogli ogni facoltà di giudizio. Quell’idea che un giorno, per caso, gli si era affacciata alla mente e che a lui stesso era parsa inconsulta, fuori dal mondo, era diventata la sua padrona. Ogni mattina, al risveglio, lo aspettava e chiedeva sempre nuove blandizie, fino a parergli del tutto normale, giusta, ineccepibile. Di più, lo attirava, dandogli conferme occulte attraverso visioni, premonizioni, coincidenze. Tutto ciò che incontrava, ascoltava nei vicoli, nelle bettole sembrava spingerlo là, al quarto piano della casa buia. E qui Dostoevskij ci dà una grande lezione sulle leggi della vita interiore. Non ci si può impunemente fissare su pensieri distruttivi, inauditi, che non c’entrano niente con noi, nutrirli e credere che siano innocui. Non è così. Occorre essere vigili, riconoscere gli intrusi che si infilano insieme a tutti gli altri pensieri, predisporre degli antidoti, occorre discriminare con chiarezza tra eventi del mondo interiore e realtà esterna. Raskol’nikov non aveva competenza di sé, ignorava che se mente e cuore viaggiano separati i pericoli sono in agguato. Sedotto da una costruzione mentale che compensava momentaneamente la percezione di sé come inesistente, trascurava altre parti della sua personalità che pur c’erano e si facevano vive nei sogni legati alla sua infanzia di bimbo tenerissimo e ipersensibile, quasi a metterlo in guardia, ad avvertirlo del male che si stava procurando. Ma Raskol’nikov aveva la sua missione da compiere che ormai non lo lasciava in pace. Si sentiva chiamato, un po’ come un malato che sta per essere travolto da contenuti inconsci.

Il topos del deviante è una costante dell’opera di Dostoevskij e gli permette di portare l’azione pensata fino alle sue estreme conseguenze: l’impatto con la realtà, che è sempre un evento sconvolgente e, nella sostanza, imprevedibile. È probabile che Dostoevskij per un periodo (i primi anni sessanta lo rivedono a Pietroburgo pienamente reintegrato dopo prigione ed esilio) abbia incrociato le problematiche di Raskol’nikov legate alla drammatica mancanza di denaro e, come lui, si sia perso in assurde farneticazioni per venirne a capo. Sappiamo che alla morte improvvisa del fratello, quello della lettera, con cui dirigeva una rivista inizialmente fortunata, le cose avevano iniziato a precipitare. Debiti da tutte le parti, creditori e usurai che lo inseguivano minacciandogli la galera, la famiglia del fratello con tanti bambini rimasta in miseria e c’era pure la zia Kumanina proprietaria di immense ricchezze che, proprio come la vecchia usuraia, aveva firmato un testamento in cui lasciava tutto alla chiesa per gli addobbi e le messe in suffragio della propria anima. C’è da credere che qualche pensiero sul diritto morale a possedere grandi ricchezze se la sia fatta anche lui. Comunque Dostoevskij parte per l’estero per sfuggire ai creditori e poco dopo comincia a scrivere Delitto e castigo.

Il progetto era piaciuto all’editore Stellovskij che lo aveva pagato in anticipo. Il romanzo esce nel 1866 a puntate con un delirante successo di pubblico. Dostoevskij è finalmente riconosciuto, al centro dell’attenzione. La sua vita cambia un’altra volta. Gli rimangono da vivere altri 15 anni in cui scriverà quattro grossi romanzi.

Ma torniamo a Raskol’nikov. Il viaggio mentale verso il delitto, narrato con febbrile concitazione, occupa un terzo del romanzo, tutto il resto è dedicato alla lenta, dolorosa, recalcitrante scoperta di sé, perché la gravità di ciò che ha commesso gli diviene chiara solo dopo. Il delitto in quanto tale entra da subito in una dimensione metafisica, mentre ciò che resta palpabile, presente, persecutorio è appunto la gravità della colpa. Il duplice massacro che Raskol’nikov ha compiuto, perché oltre all’usuraia è stato costretto ad ammazzare anche la sorella di lei sopraggiunta all’improvviso, non gli dà alcun senso di liberazione. I preziosi che ha rubato non gli interessano più, nel borsellino strappato al collo della vecchia non guarda dentro, nemmeno quando torna a casa più morto che vivo. Quegli oggetti con cui doveva liberare il mondo dall’ingiustizia dell’indigenza sono roba sporca. Raskol’nikov si muove da subito simbolicamente e tutto quello che farà, sarà un oscuro, inconscio desiderio di tornare a essere quello di prima, di ripristinare un’integrità interrotta. Deve ora fare i conti con la sua nuova realtà di assassino. Nessuna delle sue previsioni napoleoniche si verifica, tutto sparito insieme ai gioielli che non vuole più vedere e che nasconde, senza guardarli, prima in un buco della tappezzeria, poi lontano, fuori città, sotto una pietra, dove non tornerà mai più. L’idea astratta non ha retto allo scontro con la realtà, lo ha tradito, gli ha fatto credere di essere un dominatore, mentre al risveglio lo aspetta per sussurrargli che non è altro che un assassino, peggio, un pidocchio tremebondo come tutti gli altri. La delusione di fronte a se stesso è insormontabile e lo annichilisce. Cade in una letargia con soprassalti di ansia. Intuisce che è impossibile riprendere i vecchi rapporti con gli altri, con le persone amate, con la madre, la sorella come se niente fosse, facendo finta che quella “cosa” non ci sia. La nuova situazione richiede un riposizionamento dei valori che non sa come attivare. La rottura della legge etica, quel tabù disprezzato, al di sopra del quale si era messo presenta il conto: non trova più posto nella comunità umana, si autoesclude da tutto.

Ma il mondo della psiche anche quando è malato tende sempre alla guarigione. Qualcosa dentro di lui ha pietà di lui e lo spinge a farsi ritrovare. Semina indizi da tutte le parti, si abbandona nelle bettole a confessioni farneticanti davanti a sconosciuti, lascia trapelare sottintesi, prova a uscire dall’assedio tutto interno, giacché per il momento nessuno sospetta di lui. Braccato da se stesso mette in scena manovre inconsulte, come quella di tornare sul luogo del delitto e chiedere agli imbianchini che ci lavorano, come mai non ci sia più la macchia di sangue. Ma la svolta arriva con la comparsa dei due analisti del romanzo. Nella sua disgrazia Raskol’nikov ha la fortuna di incontrare due aiutanti che lo spingono nell’unica direzione possibile: l’accettazione della sofferenza, perché di lì passa la presa di coscienza di ciò che ha fatto e la possibilità di risorgere. Da una parte il procuratore Porfirij Petrovic, dall’altra Sonja, la giovane prostituta che si innamora di lui. Naturalmente Raskol’nikov scantona, s’impunta, si ritira, perché questo viaggio, diversamente da quello monocorde che lo aveva portato di filato al delitto, è costellato di buche, anfratti con tutte le reazioni, le controreazioni, le ritrattazioni, le resistenze, le fughe di ogni vero viaggio analitico. Ma non ha scampo. Il fatto è che la sua vita era diventata un vero inferno, non certo per il rimorso, che non proverà mai, la vecchia aveva avuto quello che si meritava, ma per una sua strana infelicità saltata fuori da chissà dove che lo condannava a tagliare il ponte col meglio di sé. Il paesaggio interno era nuovo e sconosciuto, dominato dalla forzata convivenza col suo segreto sconcio, lontano anni luce da quello passato, di solo due giorni prima. Tutto ciò che lo aveva interessato era finito, simbolicamente sepolto sotto la pietra insieme ai gioielli. Si trattava di ben altro: la sua anima chiedeva ora di rompere con la maledizione della solitudine cui il suo orgoglio rispondeva con la rabbia.

Il primo a stanarlo è Porfirij, giudice psicologo con pochi indizi ma molto intuito, che quando ha chiaro il profilo dell’imputato, che ancora imputato non è e nemmeno ufficialmente sospettato, lo attende al varco, senza forzare, né intimorire; lo accerchia amichevolmente, lasciando cadere, di tanto in tanto, come per caso, semi della sua intuita verità. Certo un gioco al gatto e al topo che ha però la funzione di lasciar sorgere in Raskol’nikov un conflitto cosciente, di familiarizzarlo con le opposte fazioni che confliggono dentro di lui. Porfirij si accorge che c’è qualcosa da ricostruire in quel ragazzo e che vale la pena di farlo, cedendogli il bandolo della matassa. Avrà ragione, perché dopo 12 giorni Raskol’nikov cederà alla pressione di ciò che in lui si è messo in moto e gli si consegnerà.

Altra cosa l’atteggiamento di Sonja che non manovra nulla, semplicemente c’è e ama. Raskol’nikov sceglie lei per la sua confessione, sentendo per istinto che questa minuta, timida, fragile ragazza dagli occhi celesti e sereni ha una forza straordinaria ed è l’unica in grado di reggere la sua terribile verità, senza farsi travolgere dallo spavento. Sonja abbraccia tutta la sua disperazione e insieme gli addita simbolicamente la strada per ricongiungersi con la comunità umana senza cui non si può stare.

“Vai subito al crocevia, inchinati, bacia la terra che hai profanato e poi inchinati a tutto il mondo e dì a tutti ad alta voce: Io ho ucciso! Allora Dio ti manderà di nuovo la vita”. Non succederà subito, le resistenze sono ancora feroci, come i momenti di odio verso di lei che lo guida ferma e implacabile come una sentenza, ma anche quel momento arriverà. Il rito di stampo pagano sarà benefico, perché proprio al crocevia dove lo manda Sonja, superando la vergogna, i commenti, gli schiamazzi dei passanti che lo chiamano ubriaco, sgorgano, per la prima volta, le lacrime e comincia a sciogliersi quel grumo che la sua vita murata e rattrappita non riusciva più a contenere.

È l’inizio della riconciliazione, del ripristino in lui dell’uomo interiore, di quel livello, cioè, della personalità che ha come protagonista il cuore. Il cuore non come affastellarsi di emozioni o stati psichici fugaci, ma come organo pensante, centro metafisico, spirituale, conoscitivo, dalla cui riattivazione può nascere la guarigione.

L’autodenuncia ufficiale al commissariato arriverà più tardi, un paio di pagine dopo, ma tutto si è già compiuto: la parabola del romanzo ha decretato l’impossibile convivenza fra la sopportazione di se stessi e la violazione etica.

Perché l’uomo colpevole si autodistrugge psichicamente prima ancora che intervenga la Nemesi sotto forma di legge punitiva.

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RIFLESSIONI SU DELITTO E CASTIGO – DI ERICA KLEIN