QUESTO È UN LIBRO PER VECCHI

Dania Cappellini e Julie Cunningham
 
 

L’analisi dovrebbe essere una cosa bella, una cosa divertente,

qualcosa che somiglia a un gioco.

Dovrebbe essere qualcosa che piace

e per la quale uno è disposto a impegnare energie, tempo e soldi,

come quando si va a vedere una partita.

[Antonino Ferro]

 
 

La libertà fa paura. In generale, a chiunque la eserciti, per ognuno che la persegua con il suo inevitabile carico di responsabilità. Perché la psicoanalisi dovrebbe esserne immune? Se lo domanda anche Antonino Ferro, past president della SPI, psichiatra, formatore e autore di numerosi libri, nel suo Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Perché “il desiderio di rinnovamento della psicoanalisi e delle sue istituzioni fa paura, quando trova un interlocutore che lo asseconda più di quanto la prudenza non consigli”.

Il libro è frutto di un dialogo con il curatore del volume, che forse sarebbe più corretto definire coautore, Luca Nicoli, che ha pungolato Ferro su tutte quelle questioni che un clinico giovane non è mai pago di conoscere, specie quando davanti ha un analista considerato un fuoriclasse.

La prima domanda che un analista appena formato rivolgerebbe a Ferro è persino scontata: la psicoanalisi è ancora un metodo di cura valido per i pazienti del terzo millennio? Per rispondere, Antonino Ferro esamina, in modo irriverente appunto, tutti i punti fondamentali della teoria e persino dell’iconografia freudiana: la durata della terapia, il transfert, lo scambio verbale del setting, l’utilizzo dei sogni, l’onorario, persino il più celebre dei suoi simboli, il lettino.

Come osserva acutamente Alessandro Uselli, del Centro Studi Psicologia e Letteratura, “Nicoli si presenta a Ferro descrivendo il presente lavoro come un manuale di autodifesa per giovani analisti, e non lascia dubbi sin dall’introduzione su quello che sarà il tenore del libro, non preoccupandosi di fare importanti self-disclosure che potrebbero essere considerate scabrose”.

E Ferro “non ha paura” di esprimere la sua libertà di pensiero confessando a chi non la conoscesse la sua “innata avversione per il Freud monumentale, che ‘ha già detto tutto’, alle sue prime ipotesi psico-neurologiche del Progetto di una psicologia, che considero (colpevolmente, direbbero alcuni colleghi) poco più di un documento storico. Penso – e lo dico a bassa voce – all’Interpretazione dei sogni che non ho mai finito di leggere, vuoi per mia pigrizia mentale, vuoi per un pizzico di narcisismo iconoclasta giovanile, vuoi per la sensazione che quello è il passato, anche se un passato glorioso e fondamentale, mentre il presente è Glen Gabbard, è Thomas Ogden, è il libro sul sogno – ormai introvabile – curato da Stefano Bolognini….”.

E come dovrebbe dunque essere, rottamato Freud, la psicoanalisi del terzo millennio? Una disciplina che deve “viaggiare con il bagaglio a mano” e non come una “lumaca costretta a trascinarsi faticosamente la sua casa”, consapevole di tutti gli scontri di potere che troppe volte hanno insanguinato i luoghi dell’analisi, clinici, formativi, sociali: “D’altronde l’analisi dovrebbe essere questo: entrare in contatto con tutte quelle nostre potenzialità a oggi impensabili, non avere città con divieti di transito, non avere città con interdizioni al passaggio, poter transitare sulle strade della nostra mente attuale e anzi concepirla in perenne espansione”.

Il percorso di rinnovamento psicoanalitico, di cui Ferro si fa testimone con la sua teoria, è fatto di tanti gradini, modelli teorici messi a confronto, conosciuti e poi dimenticati. Più precisamente, l’autore ricorda i contributi kleiniani, winnicottiani, freudiani, bioniani, dei Baranger, di Sullivan, di Donnel Stern, di Marco Conci e Corrao, la narratologia e gli apporti di Ogden e Grotstein che tanto raccomanda per le nuove formazioni. Si tratta di un’evoluzione che vede, inoltre, i suoi pazienti come importanti collaboratori delle variazioni da lui compiute al suo modo di procedere nel corso degli anni.

Su questa strada, nuova e talvolta ricca di svincoli, s’inoltrano i dieci capitoli del libro incontrando di volta in volta “caselli” di teoria, tecnica, identità o semplicemente di metodo. Chi legge, analista o paziente, più di frequente storce il naso per dissentire o si compiace di come più vicina e umana possa essere oggi una disciplina nata – convenzionalmente – nel 1895? 123 anni non sono pochi, una piccola locomotiva a vapore è diventata un treno ad alta velocità. Può dunque considerarsi blasfemo rinnovare anche i binari della mente?

Eppure i “pensieri” di Ferro contengono paradossalmente un’altra verità: questo, nonostante le apparenze e la sua missione di rinnovamento, non è un libro per giovani anche se contiene molti spunti per la formazione degli analisti. Non si sottolinea forse abbastanza, anche se è vero che può essere implicito, che le formulazioni originali che sembrano spregiudicate, azzardate o – appunto – giovanilmente irriverenti, sono in realtà il risultato di decenni di pratica clinica e soprattutto di competenza di sé. Il che si declina in una libertà di muoversi nella relazione analitica che non è mai spontaneismo né improvvisazione. Ma non tutti i futuri analisti hanno le stesse inclinazioni o formazione per comprenderlo. Perché spesso è solo l’esperienza a essere in grado di rinnovare se stessa: come in letteratura, in politica e nell’arte.

Non vogliamo chiudere, però, senza guardare nello specifico alcuni pensieri “ferriani” forse non nuovi, ma che hanno fatto pensare al lavoro con i bambini e soprattutto con il gioco dei bambini in terapia.

Un aspetto del libro che è stato particolarmente interessante è l’uso che fa Ferro delle storie che emergono durante l’analisi con adulti. Ferro sembra invitare il paziente a entrare nel mondo interiore delle proprie storie, di narrarsi ma in modo diverso da come la narrazione di solito viene intesa. Parla di un processo che “continuamente trasforma i dati che ci arrivano dalla realtà, cosicché quest’ultima viene continuamente trasformata in una sequenza filmica all’interno della nostra mente… c’è un metodo che riconosce l’importanza dell’onirico e di questa sequenza di pittogrammi che continuamente si forma nella nostra mente e dalla quale derivano poi tutte le storie possibili.”

Quelli di noi che lavorano con bambini hanno riconosciuto questo concetto nel gioco simbolico. Spesso il bambino che gioca sembra raccontare un sogno quando unisce il reale della propria vita con dei personaggi e degli accadimenti che emergono da una fantasia inconscia. Un bambino di 6 anni, adottato da un Paese straniero dopo anni di vita in strada, giocava con la terapeuta con tanti piccoli gatti di plastica divisi tra loro due. I gattini del bambino abitavano nella bella casa delle bambole, mentre quelli della terapeuta erano costretti a vivere sotto un ponte.

La storia poi si sviluppava in modo ricco e complesso attraverso il giocare insieme, dove le menti dei due protagonisti producevano una specie di film in cui il mondo interiore della terapeuta si incontrava con quello del bambino aggiungendo delle novità che arrivavano dalla propria fantasia che creava un nuovo mondo per i propri gatti abbandonati sotto il ponte.

Il punto interessante di Ferro, applicato al gioco fra terapeuta e bambino, sembra essere quello dell’incontro dell’onirico di tutti e due che permette la creazione di storie nuove e una specie di apertura della mente a pensieri nuovi attraverso le immagini prodotte (le “sequenze di pittogrammi”).

Quello che succede spesso con bambini molto disturbati è un blocco della capacità di giocare. Sono bambini che non sanno giocare. Sara, per esempio, una bambina molto aggressiva con problemi anche cognitivi, portava in seduta storie prese da 2 o 3 film guardati continuamente a casa sua. Aveva memorizzato le battute dei personaggi dei film e voleva che la terapeuta recitasse con lei esattamente le varie storie. Con fatica ha cominciato ad accettare piccoli cambiamenti al copione grazie al divertimento prodotto dal terapeuta che introduceva delle combinazioni buffe mescolando i personaggi di un film con quelli di un altro.

Sara ha cominciato gradualmente a fare la stessa cosa, aggiungendo degli aspetti della propria realtà vitale, e le due si divertivano insieme. La rigidità di pensiero della bambina ha dato spazio al pensiero onirico, insieme al terapeuta ha potuto narrare delle storie nuove e cambiare il copione.

Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Di Antonino Ferro, a cura di Luca Nicoli. Raffaello Cortina Editore, pagg.168, € 16,00.

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Questo è un libro per vecchi