IL FILO DI ARIANNA

Monica Joris

Ci vuole un padre per crescere.

Arianna non lo aveva.

Era costretta a rimanere piccola, osservando il proprio corpo che cresceva, si ingigantiva, mentre lei era prigioniera dentro un involucro non suo.

Da dentro, come un Ufo Robot, dominava quel corpo, essere abnorme, sconosciuto, un po’ inquietante. Lei era seduta sopra un piccolo seggiolino posto dietro la radice del naso, sull’etmoide*.

* ETMOIDE: leggero e delicato come il guscio di un uovo, l’etmoide è un osso che partecipa alla costituzione delle pareti della cavità nasale, dell’orbita e della fossa cranica anteriore. È costituito da una lamina a forma di T il cui braccio orizzontale è detto lamina cribrosa, crivellata da una grande quantità di forellini che permettono il passaggio dei rami del nervo olfattivo, provenienti dalla mucosa nasale.

Da lassù poteva dominare il mondo esterno, con una forza che sentiva immensa.

Quel corpo, che tutti chiamavano Arianna, era solo uno strumento nelle sue mani. Mai una volta il Corpo aveva riflettuto sul motore di se stesso; ma si sa, un corpo è solo un involucro, fatto di carne e sangue, e nessuno, proprio nessuno aveva mai sospettato che là dentro non ci fosse un’anima. L’anima di Arianna era lei che, dall’etmoide, guardava fuori attraverso le lenti degli occhi del Corpo. Ogni tanto si ritraeva: c’era qualcuno che, a differenza della maggior parte delle persone, fissava intensamente quegli occhi. Arianna temeva che quel qualcuno la potesse intravedere, e si affrettava a nascondersi, lasciando il Corpo privo di guida, perso in uno sguardo che non aveva luce. In quei brevi istanti si alzavano i commenti canzonatori dei suoi compagni di classe “Arianna si inoca**, Arianna si inoca!”;

**  INOCARSI: è la forma dialettale di incantarsi, inteso come rimanere con gli occhi fissi senza guardare realmente nulla, senza ammiccare; è dunque un atteggiamento più che un’azione.

anche la maestra a volte la richiamava “Sveglia, Arianna! Ti sei incantata? Stai attenta!” Non sapevano, loro, che quell’inocarsi era solo il frutto di un momentaneo abbandono della sua postazione. Non lo sapevano, ma la sensazione che provavano, chi più chi meno, era come quella dell’inquilino che vuole parlare al portinaio; va verso la guardiola, ma questa volta trova soltanto un TORNO SUBITO che sottolinea l’assenza del portinaio, anziché alleggerirla; e l’inquilino a quel punto si sente un po’ perduto davanti alla guardiola vuota.

Arianna, più passava il tempo, più era soddisfatta della sua bravura nel guidare quel gigante.

Faceva tutto quello che per lei, così piccola, sarebbe stato impossibile. Il Corpo andava a scuola, si relazionava con i compagni, si divertiva (o così dava ad intendere) con loro giocando a “mondo” o a “strega-colore” . Non era granché fluido nei movimenti, era un Corpo che aveva bisogno di una montagna di roba da mangiare, e così era diventato grasso, un po’ goffo. Avrebbe voluto farlo salire su un albero, o farlo arrampicare su per una corda, o magari farlo saltare asticelle poste a più di 30 cm da terra…ma questo era un’impresa veramente impossibile, e Arianna si arrabbiava perché era lei, alla fine, che ci faceva una figuraccia. Ma tutto sommato poteva anche rinunciare ad apparire un’atleta, pazienza, erano altre le doti a cui teneva e che voleva le fossero riconosciute. Ad esempio, non era un Corpo noioso: non si lamentava mai, era sempre sano e forte, era capace di rendersi simpatico agli altri; tutti pensavano che lei fosse una bambina serena, dormiva la notte, non si ribellava a regole e doveri. Solo lei talvolta, dal suo posto di comando, si arrabbiava furiosamente, avrebbe voluto ribellarsi, non poteva e allora mollava tutto, ogni ragione, ogni ritegno, e si metteva a urlare, furibonda, dando pugni e calci all’aria; intanto il Corpo senza una guida cosciente era in balìa di se stesso.

Se Arianna ad esempio gli aveva appena dato l’imput per un’azione, il Corpo, improvvisamente solo, dava delle testate formidabili qui e là, allo stipite di una porta, all’angolo di un mobile, provocandosi dei dolori che lo paralizzavano, giusto il tempo per poi permettere ad Arianna di scuotersi dalla sua rabbia e rimettersi alla guida. Lei lo manovrava benissimo, indubbiamente.

Lo sapeva anche atteggiare, comunicando alle persone che incontrava una sensazione di autenticità che a volte davvero provava, perché a tratti si sentiva pienamente identificata in quella specie di congegno vivente col quale aveva a che fare ogni istante. Ma si trattava per l’appunto di un congegno, o qualcosa del genere. Arianna possedeva emozioni profonde, violente, le riconosceva come proprie,  ma il Corpo non le sentiva, d’altra parte come avrebbe potuto? Era innaturale aspettarsi emozioni da un Congegno. Eppure la gentilezza che il Corpo faceva trasparire nel suo modo di essere con gli altri, proveniva dal suo animo, era vera, così come l’incertezza, ed una specie di risentimento nei confronti di quella vita che l’aveva condannata a rimanere piccola, senza speranza. Arianna era ben attenta a non lasciar trasparire nulla di negativo di quelli che erano i suoi veri sentimenti, li teneva racchiusi in sé, lasciando che il Corpo facesse il suo dovere di imbonitore, mostrando soltanto il “buono e bello”: era certa che se si fosse palesata nella sua duplicità reale, nella sua evidente imperfezione assoluta, sarebbe stata scartata dal mondo affettivo di chi aveva a che fare con lei, di chi aveva il compito di accudirla e amarla; nessuno la conosceva, nessuno aveva mai oltrepassato il limite di sicurezza che lei poneva, palese a sé e al Corpo, occultato agli Altri, nessuno aveva mai immaginato nemmeno lontanamente che lei non era affatto quello che si vedeva, almeno non solo, o forse…era complicato anche per lei! Non era serena, Arianna, quando si soffermava su questi pensieri. Era combattuta e arrabbiata. Aveva sentito dire da qualche parte che le emozioni sono le parole del corpo; cavoli, ma lei come avrebbe fatto a essere veramente vera, se il suo Corpo era solo un congegno guidato? Lei  era piccola, troppo piccola, e non poteva riuscire a far parlare il suo Corpo con emozioni che rimanevano in quel grumo che lei era, là, seduta dietro la radice del naso. Così Arianna si ritrovava ad essere, nell’apparire all’esterno, se stessa a metà, trattenendo i suoi bisogni e le sue rabbie all’interno, in quel sé che se ne stava comodamente seduto sull’etmoide.

Pensava che tutto sarebbe andato avanti così, soddisfatta, in fondo  di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno (a volte ci si consola raccontandosi delle pietose bugie), tronfia della sua forza, somma dei due vettori, l’anima-sé consapevole ed il Corpo, involucro potente e controllabile, almeno fino a quel momento. Aveva 13 anni e quel Corpo stava diventando veramente grande. Vi erano delle aree  di lui che lei non conosceva affatto. Era ben consapevole di braccia e gambe, di bocca, di occhi, di naso, tutte parti che lei sfruttava a pieno e che le permettevano un contatto, mediato, col mondo esterno, che apprezzava. Di tutte le stranezze di quel Corpo, l’organo-pelle le sembrava il più straordinario. A parte la funzione di protezione dagli agenti esterni, la pelle serviva al Corpo, ed in certa misura anche a lei, per riconoscere i propri limiti nello spazio; funzionava come una sorta di barriera fra Corpo e non-Corpo, ma anche come ponte fra l’uno e l’altro. A questo scopo, l’organo-pelle era stato fornito del tatto, che dava al Corpo l’incredibile possibilità di “sentire” il mondo intorno. Era un “sentire” che riguardava il caldo-freddo, morbido-duro, liscio-ruvido, asciutto-bagnato e tutte quelle sfumature in mezzo di cui lui era in grado di accorgersi. Era potente quel Corpo, Arianna ne aveva un po’ paura, non sapeva fino a quando sarebbe riuscita a dominarlo.

Era estate, Arianna era stata mandata al mare in un posto bellissimo. Il Corpo, fermo sopra uno scoglio, guardava attraverso l’acqua limpidissima, quelle profondità colorate, là sotto, odorava il profumo del mare, desideroso di bagnarsi in quello splendore. Arianna si meravigliò del fatto che il suo Congegno avesse un desiderio, a sua memoria era la prima volta. Si accorse che da qualche parte, forse attraverso quella griglia su cui era seduta, era cresciuto (o c’era sempre stato?) un filamento che le circondava la caviglia sinistra; ebbe la sensazione che il desiderio venisse da quel filo, come una scarica elettrica che le trasmetteva profumi invitanti. Ma il Corpo non sapeva nuotare, ci aveva provato tante volte, con risultati scoraggianti; anche Arianna, per la verità, aveva una gran paura dell’acqua. Questa volta il Corpo non aveva colpa. Mentre se ne stava lì a pensare, un signore anziano, in braghette corte e canottiera blu, le si avvicinò. “Sai nuotare?” le disse. “No, purtroppo!” rispose il Corpo. “Non vorrai startene qui per tutto il tempo all’asciutto, vero? Facciamo così, se tu vuoi, io ti insegnerò a nuotare.” “Ma io ho paura!” “Fidati di me, solo così potrai imparare.” Si chiamava Giovanni, faceva il bagnino in quel luogo, aveva passato la sua vita a fare il pescatore, era bruciato dal sole ed ora aveva fiducia in Arianna, o nel suo Corpo desiderante. Tutte le mattine alle 7,30, quando la spiaggia era deserta, Giovanni ed Arianna si ritrovavano nel loro solito posto. Giovanni accoglieva le paure e i fallimenti, i successi e il lento sciogliersi della tensione del Corpo, e Arianna imparò a nuotare, rivelando una grande predisposizione, tanto che Giovanni prima della fine di quella vacanza, soleva mostrare a chi non poteva credere di essere in grado di imparare, il perfetto stile libero col quale Arianna ed il suo Corpo facevano mostra di sé, orgogliosi e felici, ma soprattutto riconoscenti a quel “padre per un mese” che aveva reso possibile l’impossibile.

Il suo Corpo le aveva parlato! Ed aveva sentito, lui insieme a lei, il piacere dell’acqua salata sulla pelle, avvertita come una lieve pressione esercitata su ogni suo punto immerso, una sorta di contenimento che né lei, né il Corpo avevano mai conosciuto prima.  Ma allora lui non era più soltanto un meraviglioso congegno, era iniziato un dialogo, sottile come il filo che li univa. Arianna pensava che l’incursione nella sua vita di Giovanni fosse un segnale. Forse, pur non avendo un padre, avrebbe potuto trovare lungo la strada qualcuno disposto a farlo, qualcuno che per un po’ la potesse guidare, aiutandola a diventare via via un po’ più grande e ad appropriarsi di quell’ingombrante compagno che lei guidava come un robot, ma di cui conosceva solo poche cose. Il filo che le circondava la caviglia le serviva da àncora, per non dimenticare mai che lei e il Corpo erano indissolubilmente legati nella realtà. Cominciò a guardarsi allo specchio. Improvvisamente, come se mai lo avesse veramente guardato, vide che lui era brutto, grasso, inaccettabile rispetto all’idea che lei aveva di sé. Fu con dolore che decise di obbligare lui a mangiare meno, le pareva di essere crudele nei suoi confronti, ma attraverso il filo sentì che il Corpo era d’accordo, desiderava potersi muovere meglio, essere ammirato, invidiato, desiderato. Non fu difficile, ed insieme esultarono, lei e lui, quando per la prima volta un ragazzo le chiese il primo bacio.

Ma fu una vittoria di Pirro! L’emozione che invase entrambi era solamente un senso di rivincita e di riscatto rispetto ad una condizione precedente, non c’era stata una emozione “aperta” all’esterno, di cui lui si era fatto tramite. Il Corpo, ancora, non parlava, non in modo decifrabile, non come avrebbe voluto. A volte però Arianna si chiedeva che cosa stesse cercando. Allora si diceva che avrebbe voluto diventare grande, essere tutt’uno con lui, il Corpo, e poter porre fine a questo assurdo gioco di specchi, nel quale lei era sempre nascosta dietro ad un sipario, sicché la propria immagine riflessa risultava confusa e contraddittoria.

Cominciava a pensare di non essere una forza della natura, come aveva creduto, di non essere nata per piacere a tutti, illusione rovinosamente distrutta in più di una occasione. Alla ricerca continua di un padre, aveva continuato a vestire di questi panni tante persone che per un piccolo tratto di strada avevano funzionato come Giovanni-il bagnino. Piccoli passi, investimenti massicci, disillusioni dolorose. Il problema era che lei continuava a presentarsi come Corpo dentro cui si continuava ad arroccare, per paura o per vergogna. La responsabilità di questi dolori, ora lo sapeva, era solo sua. La piccola Arianna, suo malgrado, stava crescendo. E intanto il Corpo, quasi senza parere, aveva iniziato ad avere una volontà propria, si era stancato di essere uno strumento nelle mani di una piccola bambina boriosa ed impaurita. Il Corpo viveva, seppure confusamente; la pelle fremeva al tocco di un’altra pelle, godeva dei raggi del sole, della vista di un tramonto, piangeva della morte di un albero, di un vecchio solo, di un abbandono. Emozioni. Stava cercando la possibilità di essere davvero abitato, di essere protagonista della propria esistenza; tutto era cominciato perché lui, inesorabilmente, aveva iniziato a mettere in funzione il desiderio. I conflitti fra desiderio del Corpo e anima di Arianna divennero sempre più accesi. Il filo che congiungeva lei a lui era sempre più solido e trasmetteva gli echi della battaglia che entrambi stavano combattendo per raggiungere il medesimo obiettivo: una vita piena. Lui, il Corpo, non voleva prendere il sopravvento su Arianna, voleva preservarla, era la sua parte piccola, preziosa e fragile, quasi quanto l’etmoide sul quale lei era poggiata. Bisognava trovare un modo per cambiare, per non lasciare lui nella inquietante sensazione di essere “fuori incastro” rispetto al posto assegnatogli da Madre Natura, e lei nella disperazione dell’impotenza dovuta alla mancanza. Forse era giunta l’ora di creare un’alleanza contro l’angoscia dell’ignoto, perché la fusione fra anima e Corpo può fare paura, se da sempre si è vissuti soli.

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