La comunicazione ai tempi della pandemia ovvero il mancato dialogo tra cittadini e istituzioni

Prendo spunto da un’interessante riflessione di Massimo Recalcati, che cita Pasolini e il filosofo contemporaneo Roberto Esposito, per commentare in maniera politicamente scorretta la comunicazione degli esperti e di alcuni rappresentanti delle istituzioni ai cittadini italiani, disorientati dalla pandemia.
Osserva Recalcati che l’andar per mare da sempre rappresenta il massimo grado di libertà. Eppure anche nei navigatori più consumati, dopo un po’, cresce un desiderio insopprimibile di terra.

Possiamo affermare che la libertà si impone all’essere umano. Che siamo condannati alla libertà, da cui nessuno può evadere. Perché è ebrezza, ma porta sempre con sé la responsabilità di una scelta. Nessuno infatti può scegliere al posto nostro. Così, per ripararci dalla vertigine della libertà, abbiamo due possibilità: rifugiarci nel corpo anonimo della massa, come accade nei regimi totalitari, o nei legami sado – masochistici. Perché se è vero che il legame può essere una prigione, la prigione è pur sempre un rifugio. E per quanto insensata possa apparire questa scelta, attiene all’umano.

Esistono quindi due patologie della libertà. La libertà che vuole liberarsi della libertà, consegnando il proprio essere nelle mani di qualcun altro. E la libertà che vuole porsi come assoluta. Rifiutando ogni limite. Ponendo se stessa come unica forma di legge. O meglio, pretendendo che l’unica legge sia l’assenza di legge. A che prezzo? A scapito della polis, come accade sempre più frequentemente. Sappiamo inoltre che solo la civiltà della politica può porsi come argine a questa versione perversa della libertà. Infatti la politica altro non è se non il tentativo di tenere insieme la libertà individuale con l’esperienza collettiva della comunità. Per Aristotele, è la scienza più alta, proprio perché si preoccupa di far esistere come possibilità concreta la vita della polis. E perché la vita insieme sia non solo possibile ma anche generativa, è necessario che ciascuno rispolveri l’etica soggettiva. Si può resistere al nemico che lavora contro il bene comune solo se ciascuno si assume la responsabilità della propria libertà. Questa lunga premessa serve a introdurre il concetto di “istituzione”, che oggi non gode di buona stampa. In verità l’istituzione è fondamentale perché immette nella polis l’idea di limite. Cioè ci ricorda che non possiamo fare tutto e godere di tutto. Pasolini, le cui parole si sono rivelate profetiche, sostiene che c’è qualcosa di misterioso e commovente nelle istituzioni. Che non rappresentano il contrario della poesia. Che non sono la routine, la burocrazia, il conformismo anonimo, il grigiore indefinito, come potremmo erroneamente pensare. Per il semplice fatto che permettono il miracolo della vita insieme. Pasolini definisce, con una punta di sarcasmo, “anime belle” coloro che vorrebbero affermare la libertà contro le istituzioni. Di cui padre e madre sono gli archetipi. Una libertà svincolata dalla responsabilità, che non conosce l’eredità e la provenienza dalle generazioni che ci hanno preceduto. Alle quali ci lega un debito di gratitudine, perché nessun essere umano può auto generarsi. Quasi tutti veniamo al mondo a partire da chi ci ha desiderati e voluti. Tuttavia essere orfani eroici, senza più padri né madri, è un fantasma serpeggiante. Mentre da sempre l’umanità desidera le istituzioni, cioè i padri e le madri, perché ci rendono umilmente fratelli. Lo testimonia il lungo elenco di coloro che hanno donato la propria vita per questa causa.

Ancora una considerazione. La democrazia, prima che una forma della politica, è una dimensione fondamentale dell’essere umano. Esiste infatti un dibattito democratico che attraversa ciascuno di noi: quello che tenta di contemperare le tre istanze di cui siamo fatti. Laddove restano vitali più istanze, c’è dialogo e confronto. E soprattutto c’è una vita psichica e istituzionale sana.

Mi piacerebbe ora riflettere sull’antinomia: fratellanza vs branco. Luigi Zoja sottolinea come, dopo la verticalità del Medioevo, un ordine orizzontale ha percorso il Rinascimento. L’arte e la letteratura ne forniscono esempi eloquenti. Pensiamo alla potenza icastica de L’ultima cena, che è il più denso gruppo orizzontale dipinto nella storia. Ha inchiodato a sé folle di visitatori, perché per la prima volta i suoi personaggi rivolgono lo sguardo verso la tavola e verso i vicini, anticipando la società dei fratelli. Non per nulla, libertà, uguaglianza e fraternità sono i principi cardine della Rivoluzione francese. Che, paradossalmente, ne hanno decretato il successo e il limite. Perché, se fraternità e uguaglianza uniscono, la libertà, quando viene anteposta ai bisogni collettivi, divide. Purtroppo – ci ricorda Zoja – la tensione tra libertà dei desideri individuali e solidarietà non ha mai trovato soluzioni definitive. Può solo aspirare ad equilibri precari. È la tragica antinomia che a lungo gli uomini si sono rifiutati di guardare per quello che è.

Che la libertà assoluta sia infantile e terribile lo testimonia il Regime del Terrore, durante la Rivoluzione francese; quando gli avversari politici non venivano considerati interlocutori, ma nemici da abbattere con misure repressive di durezza inaudita. Oppure la Rivoluzione culturale cinese, percorsa da una passione feroce in nome della quale sono state dissacrate tombe, bruciati templi, distrutti milioni di testi preziosi e di tesori antichi. Accade quando il legame orizzontale si tramuta in istinto di branco, che nulla ha a che fare con la fraternità. Perché trasforma gli uomini in figli di se stessi, senza storia né eredità. Pur con i debiti distinguo, la storia degli uomini tende a ripetersi.

Tornando a bomba, l’unica obiezione che mi sento di muovere a Pasolini è che le istituzioni, incarnate in uomini e donne, non sempre si rivelano all’altezza del compito. Veniamo ai fatti della cronaca recente.
Durante l’emergenza Covid, il leader dell’opposizione portoghese, Rui Rio, ha rivolto queste parole al suo primo ministro: “Abbiamo una minaccia da combattere e questo esige unità, solidarietà e senso di responsabilità. In questa lotta il governo non è l’espressione di un partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione ma di collaborazione. Signor primo ministro Antonio Costa, conti sul nostro aiuto”. Sono parole intense, commoventi. In Italia, purtroppo, le cose sono andate diversamente: l’opposizione non ha fatto che screditare le scelte del governo, abdicando alla critica costruttiva. Come se non bastasse, a destabilizzare i cittadini si sono messi d’impegno anche i cosiddetti esperti.

Un noto immunologo, noto più che altro per l’alta esposizione mediatica, ci ha sdegnosamente informati che per alcuni mesi sparirà dai radar. Questo, per dimostrarci che non è un presenzialista, come affermano malignamente i suoi detrattori. E forse, dico forse, solo dal prossimo autunno tornerà a dispensarci le sue particole di sapere. D’altronde, quale ghiotta occasione come una probabile seconda ondata di contagi, data per certa da molti, per calcare nuovamente le scene?

Non voglio infierire su costui. In fondo è uno dei tanti tra virologi, immunologi, epidemiologi che hanno animato la passerella mediatica durante i quasi tre mesi di quarantena. Personaggi di spicco o aspiranti tali, il più delle volte pagati profumatamente per esporre le loro opinioni personali sulla pandemia. Sottolineo il termine “opinioni”, perché mi risulta che alcuni mesi fa non ci fossero né le conoscenze sufficienti né tanto meno la profondità temporale necessaria a elaborare un sapere affidabile. L’argomentazione più frequentemente usata a difesa della ridda di pareri discordanti è che questo virus è nuovo e se ne sa ancora poco. Bene – dico io – proprio per questo si dovrebbe parlare di meno e studiare di più. Perché l’andare a braccio ha poco a che fare con la divulgazione scientifica. L’epistemologia, che si occupa di come si costruisce una conoscenza scientifica, afferma che la scienza procede per teorie che, se non superano l’urto della falsificazione, vengono soppiantate. Non solo. Ci ricorda anche che, con la crisi del modello positivistico, crolla la fiducia incondizionata nell’oggettività dei fatti. Per cui si arriva ad affermare che la conoscenza non è lo specchio della realtà ma una sua possibile interpretazione. Che le osservazioni e o misurazioni perturbano in modo incontrollato la stato del sistema. E che gli stessi strumenti di misura rimandano a precise scelte teoriche. Tanto che il sapere scientifico si configura come una rete di costrutti concettuali con la funzione di ipotesi interpretative della realtà. Per tutti questi motivi, il confronto tra la pluralità dei saperi da vagliare è imprescindibile per elaborare una teoria unitaria. Di certo, non quando si deve fare dell’informazione onesta a decine di milioni di persone spaventate. Non solo. I vari esperti, durante le numerose ospitate in TV, non hanno perso occasione per pubblicizzare il loro ultimo libro su pandemie e dintorni. D’altronde un po’ di autocelebrazione non guasta: che dire infatti dell’uso smodato dell’appellativo “scienziati”, con cui amano definirsi? Al riguardo, avrei qualcosa da eccepire. Perché, considerarsi “uomini di scienza” è più che legittimo, ritenersi “scienziati” trasuda narcisismo, a mio parere. A questa stregua come dovremmo appellare i vari Fermi, Einstein, Fleming, solo per citarne qualcuno? Inoltre dubito del fatto che le loro apparizioni mediatiche siano state motivate dalla sola esigenza di fare dell’informazione disinteressata. Perché l’etica professionale avrebbe suggerito loro un paio di cosette: concordare una linea comune, rinunciando per una volta alla personale visibilità, e rifiutare compensi, stante la pessima situazione economica in cui versava e versa tuttora il Paese. Non è andata proprio così. Ci è toccato assistere a una bagarre, che aveva l’antico sapore della rivalità fraterna. Quella del branco, per intenderci. Così siamo stati inondati di pareri catastrofici e prescrizioni comportamentali tassative, spesso smentite il giorno dopo dall’esperto di turno. Anche lui deciso a lasciare un segno nella storia. Se non proprio quella con la esse maiuscola, almeno quella della pandemia Covid 19. Se poi qualcuno osava contestare la strategia della paura, costoro erano pronti a ricompattarsi come un sol uomo per metterlo all’angolo. Ciò non solo è antidemocratico, ma anche lontano anni luce dalla prassi scientifica. Mi riferisco all’accoglienza gelida riservata all’ipotesi di Luc Montagnier, premio Nobel per la medicina per aver scoperto nel 2008 il virus dell’HIV. Il quale si è permesso di affermare che a suo parere la diffusione del Covid 19 è stata frutto di un errore umano. Probabilmente da parte di chi stava mettendo a punto un vaccino contro l’AIDS. Perché lo sostiene? Perché analizzando il genoma del Covid 19, si è accorto che conteneva al suo interno delle sequenze geniche del virus dell’HIV. Poiché non esiste niente del genere in natura, sembrerebbe un artefatto. In tal caso risulterebbe altamente instabile e destinato a decadere in un lasso di tempo relativamente breve. Sottolineo che stiamo parlando di un uomo del calibro di Luc Montagnier che, seppur novantenne, ha passato la vita ad analizzare sequenze genomiche virali. Eppure l’intervista da lui rilasciata a una TV francese è sparita dal Web in una manciata di ore. La comunità scientifica gli si è rivoltata contro in modo beffardo, definendo le sue ipotesi fantasiose. Deridendolo per principio, perché recentemente pare abbia assunto posizioni “No vax”. Con modalità simili è stata messa a tacere anche la virologa Gismondo, direttrice del Laboratorio di Microbiologia dell’Ospedale Sacco di Milano. Che si era permessa di affermare che, poiché era sensato supporre che il numero dei contagiati dal virus fosse almeno dieci volte superiore a quello stimato, il numero dei morti per Covid 19, per quanto elevato, veniva drasticamente ridimensionato. L’hanno definita un’irresponsabile, obbligandola al silenzio. Forse perché le sue parole risultavano troppo rassicuranti per il popolo bue, che temevano di non riuscire più a controllare? Ovviamente tutto questo baillame ci ha precipitati nel più cupo e rabbioso sconforto. E per sopravvivere, abbiamo scelto, tra le tante, le informazioni che confermavano le nostre convinzioni personali. Quelle cui ci affidiamo ogni giorno. Ciò ha comportato lo sdoganamento di una serie di comportamenti fobici quando non paranoici, un tempo sottaciuti prudenzialmente e ora esibiti platealmente, perché avallati dallo scienziato di turno. E anche la proliferazione di posizioni negazioniste, forse atte a mitigare il terrorismo psicologico.

In compenso possiamo affermare con orgoglio che molti italiani, oltre a essere allenatori e psicologi, oggi sono anche virologi di lungo corso.

Tornando a noi, c’è ancora una questione spinosa che riguarda la scienza. E cioè che non solo è strettamente intrecciata al processo produttivo, ma anche politicamente schierata. Pensiamo alla messa a punto del vaccino anti Covid 19 ad esempio: inutile negare che mobilita ingenti somme di denaro, oltre che paurosi conflitti di interesse. Banalmente perché chi ne caldeggia la diffusione, magari lo produce. All’inizio della pandemia, illustri scienziati ci hanno comunicato che sarebbe stato necessario almeno un anno per produrlo; perché gli RNA virus sono instabili, perché esistono più varianti dello stesso ceppo e soprattutto perché serve testarlo accuratamente. Mentre oggi, dopo soli sei mesi, ci annunciano che è quasi pronto. Come può una persona dotata di un briciolo di senso critico non chiedersi dove sia finita l’etica? Per inciso, ricordo che un signore che di nome faceva Albert Bruce Sabin, oltre ad aver messo a punto il vaccino contro la poliomielite, ha rinunciato a brevettarlo, per consentirne la diffusione tra i poveri ed evitare pericolose speculazioni economiche. Altri tempi, altra etica.

Pur non essendo un’esperta di comunicazione, mi sono resa conto che durante la pandemia l’informazione è risultata lacunosa, frammentaria e piena di salti logici. Ci venivano comunicati dati poco confrontabili tra loro. Sul numero dei morti, ad esempio: morti per Covid o per altre patologie? E quanti in più rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti? Questo richiederebbe la prassi scientifica, senza nulla togliere alla gravità di quanto è accaduto. Come cittadina, mi sono sentita offesa dai modi arroganti usati da alcuni rappresentanti delle istituzioni per rimediare a scelte politiche miopi e scellerate. Che sono ricadute, in primis, sugli operatori sanitari e poi, a cascata, sui cittadini. Perché se è vero che il Covid 19 è una roulette russa e che la pandemia, come un’onda di piena, ci ha travolti, è pur vero che il sistema sanitario pubblico, relegato al ruolo di Cenerentola, ha mostrato tutte le sue crepe. Per tacere il resto. Dunque il distanziamento sociale e le buone pratiche igieniche si sono rivelate l’ultima spiaggia per fronteggiare una situazione completamente sfuggita di mano. Questa mi sembra una narrazione onesta dei fatti occorsi. Rispettosa sia dell’abnegazione di medici ed infermieri, che del senso civico dei cittadini. Invece, si è preferito sventolare davanti ai loro occhi il fantoccio della paura piuttosto che far leva sul loro senso di responsabilità. Triste per uno stato democratico…

Fulvia Ceccarelli

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La comunicazione ai tempi della pandemia