L’apprendista, il maestro e la psicoterapia ai tempi del Coronavirus

Apprendista

Maestro, il termine “pandemia” deriva dal greco “pan-demos” e significa tutto il popolo. Possiamo immaginare che ci sia un “inconscio collettivo”, un contenitore psichico universale, in cui sono racchiuse rappresentazioni presenti e future?

Maestro

Direi di sì, siamo parte di un contenitore psichico universale e siamo sempre in relazione immediata con la nostra psiche. Lo si vede bene nei sogni (e negli incubi). Nell’esperienza onirica appare evidente quanto siamo attori e spettatori insieme degli accadimenti della vita, non solo la nostra, ma dell’intera umanità, poiché in ogni momento noi siamo noi stessi e siamo la nostra specie. L’attuale situazione di emergenza ci mette a contatto e a confronto con vecchi amici (o nemici) della nostra storia che fanno capolino in questi giorni (e speriamo ancora per poco). Questa situazione di emergenza è come se avesse dato un’accelerata al confronto di ogni paziente con parti di sé poco pregevoli e presentabili e soprattutto ha dato un’accelerata al confronto con un tema inevitabile, ma non tantissimo gradito neanche da noi terapeuti, che è quello della morte. Questo è, quindi, un momento molto importante e significativo che mette alla prova anche noi analisti su quanto siamo abbastanza forti e capaci di gestire questo tema in prima persona e di aiutare i nostri pazienti a fronteggiarlo.

Apprendista

In relazione a quanto stiamo vivendo in questo particolare momento storico, come il terapeuta “sufficientemente buono” può utilizzare la propria autenticità? Quale sguardo può rivolgere a sé stesso, per essere “efficace” dentro la stanza della terapia?

Maestro

Non credo si possa rispondere all’angoscia propria di questo periodo facendo ricorso solo a quelle contromisure che risultano sensate a livello medico. Sostanzialmente l’angoscia che stiamo vivendo in questi giorni dipende dal fatto che siamo diventati improvvisamente e forzatamente coscienti della nostra precarietà, senza avere nessuna sicurezza definitiva sul piano biologico. Questa consapevolezza fa saltare tutto il quadro delle limitate sicurezze dell’esistenza e apre un campo di infinitezza. Proprio questo è il motivo per cui, per superare l’angoscia, la coscienza umana non ha che il campo dell’infinito. Quindi, il modo migliore per placare l’angoscia dei nostri pazienti consiste nell’offrire loro una conferma e un’accettazione senza riserve: appunto infinita. Personalmente cerco di esserci il più possibile: ci sono pazienti che si fanno risentire avendo concluso il rapporto terapeutico anni fa, eppure hanno la necessità di mandare un messaggio per sapere dove sto.
L’altro giorno mi è arrivato un messaggio dal mio primo paziente, forse il paziente zero della mia storia professionale! Assicurandosi sulla vita del proprio genitore analitico ci si conferma anche nella propria; non credo che sia solo una manifestazione d’affetto!
Far sentire i nostri pazienti responsabili della loro esistenza, autori della loro vita, importanti per noi e per il mondo, aiutarli ad armonizzare questo sentire con gli strati più profondi della psiche e con la natura, allevia l’inevitabile angoscia che accompagna tutti noi in questo nostro esserci. Noi apparteniamo a un regno invisibile e non curiamo l’angoscia con la morale o con una tecnica, ma grazie a una forma di incontro che consente di ritrovarci e di rigenerarci dall’interno. Più precisamente, tacitiamo l’angoscia soltanto nel faccia a faccia con una persona che desidera incontrare proprio noi, determinando così la nostra esistenza, non sentendoci più frutto del caso.
Questo è un momento in cui il nostro ottimismo di ruolo viene messo alla prova dei fatti: un analista che nel suo ottimismo di ruolo non abbia ben salda dentro di sé la credenza che il paziente abbia risorse personali per potersi curare non è un buon terapeuta. In questo momento, che ci mette a confronto anche con la nostra visione della vita e le nostre risorse personali, è ancora più importante che un terapeuta creda fortemente e in modo autentico a quell’ottimismo nelle risorse sia personali sia dei suoi pazienti capaci di aiutarlo ad attraversare questo momento e a sostenerlo anche dopo, quando ci saranno scenari difficili da affrontare, ma che non devono però presentare ai nostri occhi un panorama solamente buio: si affronteranno nel momento in cui si presenteranno.
I nostri pazienti hanno quegli aspetti di affidamento che chiamano in causa parti piccole, meno evolute e più primitive in relazione a noi. Irvin Yalom nel suo libro Psicoterapia esistenziale, al capitolo “Il concetto di morte nei bambini”, scrive:
Il grado del trauma è in larga misura una funzione del grado di angoscia della morte della famiglia. In molte culture i bambini partecipano a rituali che riguardano i morti. Possono avere dei ruoli assegnati nei funerali o in altri rituali funebri. Nella cultura Fore della nuova Guinea, per esempio, i bambini partecipano al divoramento rituale di un parente morto. È assai probabile che quest’esperienza non sia catastrofica per il bambino perché gli adulti partecipano all’attività senza un’angoscia serena; fa parte del flusso naturale, spontaneo della vita. Se un genitore sperimenta un’angoscia severa in rapporto alla questione della morte, come è spesso vero nella cultura occidentale, allora al bambino viene dato il messaggio che c’è molto di cui aver paura. Questa comunicazione parentale può essere particolarmente importante per quei bambini che hanno delle malattie fisiche serie. Come affermato da Marian Breckenridge ed E. Lee Vincent, ‘i bambini sentono l’angoscia dei loro genitori riguardo al loro poter morire, e quindi tendono a portare in sé un vago malessere che i bambini sani non sperimentano’.
Io sostituirei questi genitori con i terapeuti e questi bambini con i pazienti. Penso che in un momento come questo la meta-comunicazione che noi facciamo ai nostri pazienti risenta moltissimo della nostra autenticità rispetto al punto a cui noi siamo arrivati nell’elaborazione del tema della nostra morte. Si vedrà se siamo veramente quello che pensiamo o non lo siamo, quindi è una cartina di tornasole molto potente anche per noi analisti, che mette in luce quanto siamo costruiti o quanto veramente siamo quello che diciamo o pensiamo di essere.

Apprendista

Quali possono essere le spiegazioni di questo fenomeno che possiamo dare ai bambini? Perché anche loro chiedono e fanno domande in merito a questo, quindi, al di là dell’ansia che possono sviluppare, come poter spiegare un evento simile a un bambino?

Maestro

Non vorrei risultare una voce fuori dal coro in questo periodo di angoscia generalizzata, di malattie e di morte, ma io penso che i bambini siano in grado di comprendere che questa è una malattia simile a quelle che possono prendere in altri periodi (come la varicella, il morbillo e altre malattie virali). Ritengo si possa spiegare ai bambini che esistono delle malattie che possono colpire loro, così come i genitori, i nonni e le altre persone che gli sono vicine e che le malattie possono essere qualche volta gravi e che si può morire, ma che comunque non sono soli; ci sono i genitori che li amano e che li aiuteranno a sopportare ciò che sta succedendo.
Penso anche che gli adulti tendano spesso a dare risposte o spiegazioni ancora prima che i bambini facciano domande, sentendosi in dovere di spiegare ciò accade senza attendere; indubbiamente il bisogno di sedare l’ansia e la propria impotenza spinge i genitori ad essere attivi, ma al tempo stesso impedisce loro di incuriosirsi su quali siano i reali interrogativi, di ascoltare ciò che i bambini hanno da dire o addirittura li induce a dare risposte a domande che i bambini non hanno. Ho sentito diversi genitori (compresi quelli del gruppo di genitori separati che seguo ormai da molto tempo e che quindi rappresentano uno zoccolo duro di conoscenza) dire che i bambini si stanno adattando abbastanza bene a quello che sta succedendo. Pur nel pieno rispetto della preoccupazione dei genitori quando si chiedono cosa dire e cosa non dire, mi atterrei alla regola che vale sempre: si risponde alle domande quando ci sono le domande e non si satura lo spazio. I bambini chiedono un po’ per volta, a seconda dell’età, a seconda di quello che vogliono sentire, e non necessariamente vogliono sentire tutto. È possibile dunque che si dia una spiegazione per sedare la propria angoscia più profonda, in questo momento legata allo sgretolarsi di tutte le nostre sicurezze di vita più che alla malattia e alla morte. Mi sembra infatti che più di tutto siamo chiamati a sostenere e tollerare (e anche i bambini) di non avere più alcun parametro di certezza nella vita quotidiana. Se per noi è cambiato completamente il lavoro come lo conosciamo, per i bambini sono saltati la scuola, i compiti, i compagni; può darsi che alcuni bambini siano contenti di stare a casa da scuola, però il punto è che vengono meno le certezze e le abitudini che fondano la nostra sicurezza di vita e quindi la nostra proiezione futura. Tutto questo è venuto meno e porta con sé un’angoscia molto profonda: mi sembra che in questo periodo, spesso il contagio (e quindi la paura del contagio) veicoli un’angoscia che in realtà affonda le radici altrove. Per concludere, mi verrebbe da dire che forse si può semplicemente chiedere ai bambini cosa pensino loro di quello che sta accadendo, e su questo costruire una verità e una realtà condivise che siano tollerabili per tutti.

Apprendista

Panico e indifferenza sono due risvolti della stessa medaglia? La paura è un’emozione che ci avverte del fatto che siamo in pericolo, è un’emozione “vitale”, nel senso che ci aiuta a preservare la vita. Il panico è invece una reazione esagerata, un sintomo che non ci permette di pensare, a cui si deve “reagire”. A me sembra che la nostra società abbia reagito in modo dicotomico: “impanicandosi” quando non era il momento o mostrando indifferenza. Solo ora, con i tragici dati che sentiamo, stiamo mostrando “paura” e attivando difese adeguate. Penso che queste reazioni dicotomiche siano le risposte a una difficoltà che abbiamo un po’ tutti, ovvero il bisogno di non avere la consapevolezza che in quanto essere umani abbiamo dei limiti: non siamo onnipotenti né tanto meno immortali. Credo che questa sia una situazione che ci costringe invece a confrontarci con questa dolorosa consapevolezza. E chi non riesce ad attivare le risorse adeguate a fronteggiare ciò può entrare seriamente in difficoltà. Un esempio lampante di soggetti che non hanno consapevolezza dei limiti sono gli adolescenti, ma in questo caso credo che sia fisiologico, tipico della loro età. I ragazzi sono portati a mettere alla prova i limiti, e infatti nei giorni scorsi se ne sono visti anche troppi in giro.
Per noi adulti, invece, dovrebbe essere diverso. Ma come si fa a vivere in modo piacevole, pur sapendo che prima o poi si deve morire, senza negarlo e senza “entrare in depressione”? Yalom (e innumerevoli filosofi prima di lui) dice che è proprio la consapevolezza della caducità che ci dovrebbe spingere a vivere meglio, cercando di vivere al meglio delle nostre possibilità, con consapevolezza e volendo ogni nostra esperienza. Ecco, come si fa?

Maestro

Secondo me è normale, fisiologico e sano accettare la nostra depressione e la nostra paura, senza necessariamente scatenare delle guerre, cioè non in modo reattivo (ho paura quindi aggredisco). Quindi se in questo periodo si è un po’ depressi e un po’ spaventati forse è normale che sia così e poterlo accettare è segno di equilibrio e dovrebbe essere un nostro punto di arrivo.
In effetti panico e indifferenza sono due risvolti della stessa medaglia. Ma si tratta di risposte disadattive, troppo distanti da un corretto esame di realtà. La risposta giusta credo stia nell’accogliere la transitorietà delle cose e della vita, osservandone con meraviglia e curiosità la mutevole bellezza. Vivere ogni istante con senso estetico e impegno, apprezzando l’unicità del qui e ora. È ovvio che questa è una condizione difficile da raggiungere, non voglio dire che io ci riesca ma è dove mi piacerebbe arrivare.
In questi giorni è venuto a mancare (non per il Coronavirus) un vecchio e grande giurista di 95 anni che per me è stato un faro: Giuliano Boaretto. Durante una mia conversazione con lui su temi come l’immigrazione, i cambiamenti sociali, la paura, che i vari “ministri della paura” ci inducevano a provare, lui diceva: “L’unica cosa che mi dispiace è che io sarò troppo vecchio per poter vedere che cosa succederà dopo”. Io credo che Giuliano avrebbe usato le stesse parole anche in questa contingenza: è vero che il futuro ci fa paura, ma dovremmo essere tutti dei Giuliano Boaretto capaci di dire “sono curioso di vedere cosa succederà dopo”, perché è solamente la curiosità che mobilita l’energia per andare avanti.

Apprendista

C’è una tematica secondo me importante nel concetto di panico e indifferenza che è il tema dell’inimmaginabile: nessuno poteva prevedere questo, nessuno poteva prepararsi, ma è successo lo stesso. Mi sovviene una frase di Mark Fisher che dice: “E’ più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo” e a volte penso che alcuni Stati abbiano deciso di vedere la fine del mondo (penso al Regno Unito e alle dichiarazioni dei suoi ministri). C’è questo tema dell’inimmaginabile in psicoterapia? Si vede coi pazienti il tema dell’inaspettato, dell’imprevedibile, dell’impensabile?

Maestro

Ma questo non attiene al nostro limite di essere umani? È vero che le tue sono domande molto difficili e io credo che forse la nostra umiltà e la nostra umanità risiedano nel fatto di non avere delle risposte, ma proprio nel fare continuamente delle domande, che è un po’ la linea che io seguo nelle sedute di psicoterapia. Il fatto di partire dal pensare le domande confinate in un numero di 2, 3, 4 o 5 che siano, e chiudere la seduta con un’infinità di domande, in genere porta con sé la ricchezza di darsi delle risposte che erano inimmaginabili all’inizio della seduta. La risorsa e lo strumento principale che noi abbiamo è proprio quello di riconoscere il nostro limite, soprattutto rispetto a un fenomeno di questa portata, e porsi umilmente nel fare e nel farsi anche insieme ai pazienti delle domande. È importante aprire sempre più alle domande perché la nostra psiche, a me sembra, mentre chiede, mentre si interroga, trova le risposte anche rispetto alle emozioni più profonde e angosciose, come la paura del “che cosa sarà? che cosa succederà? toccherà a me? toccherà ai miei cari?”. Sono domande molto angosciose di cui non possiamo sapere né immaginare la risposta, possiamo però aprirci a esse, con speranza.

Apprendista

In questo momento ci si trova di fronte a qualcosa di inimmaginabile, di sorprendente, nella relazione con i pazienti?

Maestro

Sicuramente sono rimasto sorpreso nel trovare delle risorse laddove non immaginavo di trovarle, ponendomi in un atteggiamento di umiltà: io non so cosa sarà di me, io non so e non dispongo di un sapere precostituito e preconfezionato, cerco solo di stare con il paziente. Questo è l’atteggiamento che io uso e che mi ha fatto scoprire risorse nascoste sia in me sia nel mio interlocutore. Quindi nella mia esperienza, paradossalmente, l’accettazione di non sapere apre alla conoscenza.
Ai tempi del Coronavirus noi continuiamo a fare il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto, continuando a reggere e a sostenere la frustrazione di non avere una risposta per tutto, ma una domanda per tutto: abbiamo domande ma non abbiamo risposte. È questa frustrazione che noi per primi dobbiamo imparare a tollerare e che speriamo imparino anche i nostri pazienti. In compagnia del Coronavirus penso che tutte le dinamiche sociali, intrapsichiche, di coppia, tendano a essere enfatizzate, sono accelerate, ma non credo che la nostra psiche e il nostro modo di essere siano cambiati: antropologicamente siamo sempre gli stessi, solo che la presenza di un pericolo rappresenta un acceleratore delle suddette dinamiche. Non è un caso forse che alla fine della quarantena a Wuhan si sia registrato un numero elevatissimo di divorzi, ma nello stesso tempo anche un numero elevatissimo di concepimenti; non credo che le persone abbiano divorziato a causa del Coronavirus, piuttosto credo che abbia accelerato dei processi già in atto che si stavano svolgendo lentamente.
Probabilmente l’incremento dei concepimenti è dovuto al fatto di non avere molto altro da fare, ma non credo che ci sia solo questo tipo di spiegazione. Penso piuttosto che ciò contenga una risposta primitiva alla paura di morte che è data dal creare una nuova vita. Quindi credo che questo dato rappresenti anche una risposta delle persone alla vita: si risponde con la vita a una minaccia di morte. Altrimenti in tempo di guerra ci saremmo estinti, con tutte le guerre che ci sono state nel corso di migliaia di anni.
Alla minaccia di morte si risponde con un’amplificazione della vita: evidentemente le coppie che rispondono con la vita, rispondono prima di tutto come coppia (ancor prima di concepire). Il concepimento è il risultato di una azione di vita e di una ricerca di vita, propria, prima che del terzo.
Così come forse i divorzi possono essere una risposta di morte a un eccesso di vita. Forse è un acceleratore della consapevolezza che è ora di farla finita.

Apprendista

Io mi trovo in una situazione più sfumata rispetto a quella descritta fino ad ora, infatti ho sentito i pazienti che seguivo al CPS e mediamente loro se la cavano alla grande, qualcuno anche molto bene, quasi come se questo fosse il periodo di vita che aspettavano da anni! Da quello che ho potuto vedere non sembra che stessero contro-agendo la paura, ma piuttosto che stessero davvero a loro agio nel gestire una cosa per la quale forse hanno qualche strumento in più rispetto ad altri; penso specialmente a un paio di persone che fino a ieri vivevano immerse nella paura, per mille motivi, e oggi non più.

Maestro

Hai in mente un’ipotesi rispetto alla capacità di risposta inaspettata e sorprendente di questi pazienti anche deprivati culturalmente oltre che socialmente ed economicamente? Te la senti di immaginare cosa ha permesso a questi pazienti un miglioramento così repentino delle loro condizioni?

Apprendista

Io immagino che non si tratti solo di avere delle risorse in più, ma che si siano spaventati di meno, cioè che fossero più abituati a fare i conti con la paura, con la possibilità che una cosa completamente sproporzionata prendesse possesso delle loro vite. Seguo una paziente che ha avuto un episodio psicotico molto grave un anno fa, poi rientrato, e da allora vive col terrore che si ripresenti. In un certo senso il Coronavirus ripropone su un piano collettivo quel terrore che lei ha già conosciuto e visto sul piano personale, mentre oggi a essere terrorizzato è tutto il resto del mondo.

Maestro

Provo ad ampliare la tua risposta. Le persone che nella vita precedente a questo periodo avevano gravi forme di disadattamento, rispetto a quella che era la vita condivisa dai più, forse adesso riescono meglio. Come dire che adesso siamo tutti disadattati e quindi, nel disadattamento, ci riconosciamo tutti. Ovvero, “il re è nudo”! Siamo tutti liberi dalle sovrastrutture che ci proteggono e ci nascondono, siamo tutti esposti a vari livelli a una paura grande. Siamo tutti uguali e questo probabilmente abbatte delle barriere. Io lavoro anche con un gruppo di disabili alcuni dei quali hanno una disabilità lieve, quindi con capacità elaborative molto elevate, e mi trovo d’accordo con l’intervento dell’apprendista, nel senso che (a parte un soggetto che ha dovuto fare i conti con delle vicende negative) la capacità di tenuta di alcuni soggetti è stata sorprendente. Io non ho ancora trovato una risposta a quest’osservazione, però evidentemente i nostri pregiudizi ci portano a sottovalutare (o a volte a sopravvalutare) le risorse che le persone hanno e quando, molto autenticamente, queste risorse sono necessarie vengono utilizzate, con grande sorpresa di tutti. Mentre noi ci stiamo spogliando delle nostre sovrastrutture forse molti soggetti si stanno vestendo delle loro risorse. In realtà, noi dobbiamo molto ai pensieri dei nostri pazienti.

Apprendista

Questa settimana ho sentito via Skype una paziente del consultorio che di professione fa la cartomante. Prima di questa situazione, la paziente svalutava la psicoterapia e faceva interpretazioni a livello mistico-esoterico che entravano un po’ in conflitto con i dati di realtà, quindi facevo fatica a riportarla sul piano del reale. Adesso, la sua interpretazione sul virus, che è arrivato per insegnarci qualcosa e per darci una lezione, nel senso che tutti facevamo troppo, eravamo tutti troppo egoisti, frenetici, l’ho sentita egosintonica, e in effetti è un po’ così per tutti, stiamo tutti rivalutando le nostre relazioni. Dunque, ragionavo sul fatto che questa sua visione mistica e queste interpretazioni prima del Coronavirus erano in conflitto con la realtà, mentre adesso sono congrue, e quindi non me la sono sentita di fermarla, ma sono stato un po’ con lei e con le sue idee.

Maestro

Sarebbe stato anche metodologicamente sbagliato, perché di fatto noi dobbiamo stare su quello che ci portano i pazienti, non sui nostri problemi legati al nostro vissuto. È molto bello e significativo quello che sta dicendo. A volte capita che un’illusione positiva possa essere funzionale per farci sopportare meglio un momento difficile e questo non bisogna, secondo me, contrastarlo (come giustamente lei hai fatto). Non bisogna favorirlo, non bisogna metterlo in discussione, ma stare vicino a questi pazienti che in qualche modo e a loro modo cercano di far fronte al pericolo. Ognuno, a modo proprio.
Apprendista
Maestro, come si concilia lo sguardo “relazionale” che caratterizza il tuo modo di praticare la psicoterapia con “isolamento e distanza” imposti dalle disposizioni? Può la vicinanza virtuale abbattere la distanza fisica?

Maestro

Personalmente credo che la vicinanza fisica sia insostituibile, tuttavia, se per il bene comune è meglio astenersi da contatti ravvicinati, le relazioni a distanza con i mezzi informatici attualmente in uso possono fungere da surrogati temporanei sufficientemente buoni. Vi racconto una storiella per me esemplificativa di come dovrebbero svolgersi i rapporti umani.
In un sutra, il re Hashinoky chiede alla regina: «C’è qualcuno sulla terra che tu ami più di te stessa?».
«Vorrei tanto rispondere che ti amo più di me stessa, ma in realtà è me stessa che amo più di ogni cosa» rispose la donna. Il re riprese: «Anch’io amo me stesso più di ogni altro». Decisero allora di far visita al Buddha Shakyamuni, per sottoporgli quel problema.
«Le vostre rispettive risposte non sono erronee» rispose il Buddha. «In definitiva, ognuno ama sé stesso. Così facendo non arreca danno agli altri. E tuttavia, nell’amare sé stesso, l’uomo arreca danno agli altri».
Mi rendo conto di quanto sia difficile, ma in definitiva la nostra formazione consiste proprio nell’imparare ad amarci per poi amare l’altro in modo disinteressato.
“Ama il prossimo tuo come te stesso” o in realtà “Tu ami il prossimo tuo come ami te stesso”. I dieci comandamenti contengono gocce di saggezza da cui non si deve prescindere. Quanto più un terapeuta è in grado di amare sé stesso (amarsi anche nei propri limiti, difetti), tanto più è capace di poter amare e accogliere benevolmente i problemi e i propri pazienti altamente imperfetti, ma che si sentono oggetto di “auto-disamore” e oggetto di disamore altrui. Per cui l’amore per noi stessi sta alla base della relazione di fiducia che dà al paziente la possibilità di amarsi compromessa nei primi anni della sua vita.
Parlo della mia esperienza personale: io sono una persona molto fisica, sono stata molto abbracciata e molto picchiata, per cui so che cosa vuol dire ricevere del bene e del male. Ovviamente, della parte picchiata è rimasto in me il fatto di essere non una persona aggressiva, ma una persona tendenzialmente violenta. Nella parte buona, quella che mi ha nutrito e fatto crescere, c’è stato il beneficio di grandi abbracci che sono stati un nutrimento più delle parole. Bene, è proprio in questo periodo, ed è una cosa che mi commuove per l’intensità, che ricordo l’ultimo abbraccio che ho ricevuto. Vi ritorno spesso col pensiero per nutrire il mio bisogno di abbracci in questo periodo di astinenza. Io, al di là delle prescrizioni psicoanalitiche, spesso tocco i miei pazienti e talora li abbraccio. È un mio bisogno (chiedo sempre permesso) ed è un bisogno anche dell’altro, però è qualcosa che trasmette un pezzettino in più della e nella relazione terapeutica. Bene, non ci sono più questi abbracci, però si sviluppa di più la parola e io credo che le persone, in assenza di abbracci e di comunicazioni fisiche, forse riscoprano il valore della parola. Credo che se non ci fosse stata questa frattura del mio corpo rispetto al resto del mondo forse non avrei potuto dire il bene che mi aveva fatto quell’ultimo
abbraccio.

Apprendista

Io ho provato con alcuni miei pazienti a fare delle sedute via Skype ed è una cosa che finora avevo tendenzialmente cercato di evitare perché mi distraggo facilmente. Per me diventa molto più difficile rispetto alla seduta “in presenza” gestire le parti di silenzio: finché ci sono due persone in silenzio nella stessa stanza c’è comunque un po’ di relazione, mentre nel momento in cui c’è silenzio online, non so perché, ma c’è un distanziamento molto superiore.

Maestro

La domanda è interessante. Io penso che dipenda un po’ da te. Anche io ho le mie difficoltà personali nelle conversazioni via Skype, ma cerco di avere questi contatti collegandomi dal mio studio, non da casa mia o in altri spazi, ma proprio dal mio studio, cercando di riproporre il più possibile quell’ambiente che siamo soliti vivere. Ripresento il setting il più possibile immutato.
Apprendista
Rispetto al concetto di corpo in terapia e al fatto che adesso abbiamo un computer che ci separa dal paziente, ci sono delle variabili nuove, che ho riscontrato e che non abbiamo negli incontri fisici. Per esempio abbiamo un feedback della nostra mimica facciale, nel piccolo riquadro che vediamo nello schermo, e questa è una cosa che non possiamo normalmente controllare, e poi c’è il controllo costante del tempo. A me entrambe queste nuove variabili aiutano, mi fanno contenere meglio la mia eccessiva fisicità. Anche rispetto al silenzio mi trovo meno a disagio nell’avere lo schermo tra me e il paziente. Quindi ho trovato tutte queste variabili facilitanti per il mio lavoro, ma vorrei capire quanto davvero lo siano e quanto invece inficino la relazione di controtransfert. Infatti, per esempio, il controllo della nostra mimica facciale è una cosa che mi rassicura, così riesco a controllarmi meglio, però è una cosa che normalmente non ci sarebbe e che quindi dovrei controllare in altra maniera. Non so se sono facilitatori o supporti eccessivi.

Maestro

Questi strumenti sono e rimarranno dei mezzi e il fine con cui li usiamo dipende solo dalla nostra riflessione e dalla nostra intenzione.

Apprendista

Io ho appena ricominciato a fare le sedute perché inizialmente non pensavo mi sarei trovata bene con la modalità online. Con un paziente che vive quasi in una realtà parallela fatta di computer, di video, in un suo mondo molto isolato ma anche molto social, ho fatto una seduta in cui paradossalmente forse siamo stati più vicini. Quindi stavo riflettendo sul fatto che forse qualche volta per persone particolarmente chiuse ed evitanti può essere una facilitazione, nell’incontro, nella vicinanza affettiva e nella relazione. Prima ho vissuto questa cosa nelle sedute con la mia terapeuta dove non pensavo mi sarei trovata e invece è andata bene. Non c’è il corpo ma c’è qualcosa di diverso… però c’è. Rifletto su quanto dipenda dalla personalità del paziente e del terapeuta, al di là del mezzo in sé.

Maestro

Certo come ogni relazione terapeutica dipende da quello che porta nella relazione il paziente, le sue paure, le sue fantasie e quello che porta anche il terapeuta e nel caso della versione della seduta su Skype è la stessa cosa. Io ho tenuto tutti i miei pazienti e penso che questo sia influenzato dal modo in cui ho comunicato la richiesta di trasformazione da vis a vis a seduta Skype. Per questioni contingenti ho lunghissima esperienza con le sedute su Skype, che facevo già da molto prima del periodo attuale. Evidentemente, dunque, nel comunicare questa possibilità di trasformazione ai miei pazienti ho passato loro una sicurezza tale che tutti, dal primo all’ultimo, non hanno mancato alle sedute. Ciò non può essere determinato dalla fortuna, dal fatto che fossero pazienti più bisognosi degli altri, non può essere solamente il risultato dell’essersi instaurata una buona corrente affettiva tra me e loro. Credo, invece, che ci sia questo aspetto della sicurezza e della padronanza della propria comunicazione che passa al paziente e che abbia permesso loro di intraprendere questa esperienza.
A tutti i miei pazienti ho detto però “vediamo come vi trovate”: è solamente relativo alla vostra responsabilità personale perché voi avete la responsabilità del vostro benessere, io ci sto bene, io sono responsabile di essere sincera con me stessa dicendo che con questo tipo di relazione posso funzionare, ma mai come in questo momento un paziente è chiamato a essere responsabile del proprio benessere o malessere. Non so quanti continueranno o quanti riusciranno a fare i conti con la responsabilità di esserci o interrompere, questo è un aspetto secondario, ma per adesso quello che mi sembrava utile comunicarvi è che (e questo vale in tutte le relazioni terapeutiche, indipendentemente dalla comunicazione di questa evenienza) il modo in cui noi comunichiamo qualche cosa segna il modo in cui viene recepita. Colleghi insicuri, o che non si sentono a loro agio in questa soluzione e la sentono come una disonestà professionale, avranno un modo di comunicarlo che ingenererà sospetto e sfiducia. E sono molti questi casi: mi confronto con vari colleghi che non hanno avuto le stesse risposte, alcuni le hanno avute, altri no.
Rispondo ancora sulla fisicità e sul famoso riquadrino sullo schermo dove possiamo vedere anche la nostra faccia. Trovo che questa sia una cosa molto interessante a cui non avevo mai fatto caso, perché quando faccio le sedute Skype metto gli occhiali per vedere da vicino per cui non riesco a vedere quel riquadrino! Adesso mi hai turbato, perché dovrò usare entrambi gli occhiali! Questa questione del controllo della propria espressione è molto interessante, ma forse non mi guarderò nel riquadrino, perché credo che potrebbe nuocere alla mia libertà. Se avessi questo controllo sulla mia espressione, che io so molto mutevole, credo che mi spaventerei.

Apprendista

Quindi lo ritiene controproducente?

Maestro

Secondo me sì, però tieni presente che ognuno è responsabile di quello che sente e delle proprie reazioni. Io conosco i miei limiti e questo non mi ha consentito di perfezionarmi, ma se non altro la conoscenza dei miei limiti mi fa dire “È meglio che non ti guardi altrimenti ci perdi sia tu sia il paziente”. Probabilmente avrò una faccia che non mi piace, ma chissenefrega! Dovrà semmai essere il paziente a dirmi che una certa mia espressione non gli è andata bene o non gli è piaciuta, ma se sono io che mi intrometto tra me e lui con un giudizio sulla mia faccia credo che sia un intervento scorretto.
In quanto all’affettività ripeto un po’ quello che dicevo prima: penso che tutti noi che facciamo questo mestiere sappiamo che la relazione terapeutica si basa anche e precipuamente su una costruzione affettivo-emotiva della relazione e delle parole che la compongono, perché noi sappiamo che le parole fanno ammalare e le parole guariscono. Ma non sono parole che escono solamente dalla testa, da quello che abbiamo studiato, ma vengono fuori dal nostro modo di essere, dalla qualità del nostro modo di amare e dal modo in cui abbiamo curato con la nostra terapia il modo in cui siamo stati amati. Questo modo era malato, diversamente noi non faremmo questo mestiere, ed è stato malato perché siamo stati troppo amati, o troppo poco amati, o male amati.
Allora è solo grazie alla correzione e all’autocorrezione attraverso l’analisi, di questa possibilità nuova di amarmi, che io terapeuta potrò offrire ai miei pazienti un’esperienza correttiva di amore e di transazione affettiva sana. Questo passa anche attraverso il corpo, ma passa soprattutto attraverso le parole e ho notato (come anticipavo prima) che Skype, che non permette di accompagnare anche con il corpo e con la forza della gestualità la portata emotiva di ciò che viene detto, rende più potente lo strumento verbale. Non avere la forza del corpo che accompagna le mie parole mi ha insegnato a usare parole più piene; quindi proprio l’esperienza Skype ha migliorato, indipendentemente da Skype, la mia comunicazione nel mondo.
Un mio collega, che ha dato ai suoi pazienti una comunicazione diversa dalla mia, ha annullato l’appuntamento fisico con i suoi pazienti e ha lasciato loro la possibilità, qualora lo avessero ritenuto opportuno, di continuare via Skype. Quindi li ha lasciati molto liberi di aderire o no, e in effetti qualcuno, pur apprezzando l’invito, ha declinato perché non si trovava nella posizione ambientale corretta, non aveva la privacy giusta per affrontare un colloquio terapeutico. Questa cosa è emersa in modo chiaro, per esempio, con un suo paziente con cui si è collegato una prima volta in casa sua e una seconda volta nel suo ufficio, dove mi gli ha potuto dire che in casa aveva omesso delle cose che poteva dirgli invece dall’ufficio.
Questa nuova modalità relazionale ci fa vedere quanto importante sia il setting. Per questo motivo ho mantenuto l’ora, il tempo e quanto più possibile la stanza. Adesso essa non è più quella del solito centro clinico ma è il mio studio privato in casa mia, per cui ho dovuto piegarmi a questo cambiamento del setting architettonico e logistico, ed è interessante vedere quanto alcuni pazienti ne abbiano sentito la mancanza: non c’è solo la persona ma anche l’arredo, il poter vedere quel quadro, quella lampada, tutti oggetti di riferimento sicuro. Una paziente mi ha detto: “Sa cos’è che mi manca? Ero in ansia e adesso ho capito perché: ho iniziato con ansia questa seduta perché mi è mancato il tempo preparatorio per arrivare alla seduta (ed è vero, se ci sediamo davanti al computer, immediatamente c’è l’analista e c’è il paziente) e mi sono accorta che la mia seduta iniziava molto prima di vederla. Iniziava uscendo di casa, con le cose pensate in macchina, con le cose che mi tenevo in sala d’aspetto e mi preparavo a dirle. Adesso sono un po’ in ansia, e ho capito perché, è come se l’incontro con lei mi cogliesse impreparata”. Anche questo sarà oggetto di ragionamento più avanti.
È proprio vero, succedono cose anche inedite e sorprendenti nella distanza: ho visto un paziente particolarmente difficile, un paziente il cui tema dominante dei nostri incontri è l’incapacità di parlare della sua vita sessuale. Ecco, per la prima volta, forse perché a distanza di sicurezza, ha detto cose legate alle sue fantasie sessuali e ai suoi primi passi in questa tormentata vita sessuale, che non aveva detto in otto anni. Sono cose che ci pongono diversi quesiti: è un bene che sia avvenuto così? È stato qualcosa di innaturale e discutibile perché è avvenuto tramite uno schermo? Non lo so, vediamo se proprio attraverso questo schermo si può in realtà aprire una possibilità di incontro con le zone oscure di questo paziente che nella presenza fisica erano impedite. Ho un grande “non so” nella testa e mi fa bene mantenerlo, perché mi apre alla sorpresa.
Allo stesso tempo mi chiedo: quello che lo strumento mi consente di controllare è quello che desidero? Io non voglio controllare il mio sguardo o il mio viso, voglio essere libera e questo strumento mi toglie questa libertà? Ecco, l’importante è sentirsi comodi sulla propria sedia. Se un terapeuta non si sente comodo trasmette inautenticità nella relazione.

Apprendista

Voglio fare una riflessione invece, sia come terapeuta sia come paziente, rispetto non solo alle difficoltà e a quello che si può perdere, ma anche in termini di ciò che si può ottenere come maggiore vicinanza e intimità tra paziente e terapeuta. Banalmente entrare in casa loro, poterli vedere in abiti da casa piuttosto che in abiti da lavoro e anche trovare il modo di affrontare e superare questo imbarazzo e questa difficoltà insieme.

Maestro

Un terapeuta non deve ricevere in abito da casa, e non deve avere le ciabatte sotto la scrivania anche se non viene visto! Mi ricordo un film, Tutta la vita davanti, che raccontava la vita all’interno di un call center dove ognuno aveva la sua postazione ed era solamente una voce. In una scena Sabrina Ferilli, la responsabile del call center, si avvicina a un’operatrice e le dice: “Che sia l’ultima volta che viene con la tuta al lavoro, perché se lei è in tuta dall’altra parte se ne accorgono”. Al di là dell’ironia, metterci in un assetto professionale ci fa rivestire meglio la funzione che il ruolo necessita.

Apprendista

Io mi riferivo più alla possibilità per il paziente che si trova a casa di farsi vedere non in abiti da lavoro, di potersi mostrare in un modo diverso e tutto questo può diventare poi anche un tema che ci permette di fare un pezzo in più.

Maestro

Tu mi induci di trattare un’altra questione molto presente nelle video sedute: quando inizio con alcuni pazienti a fare le sedute Skype faccio vedere il mio studio privato, perché li invito nella mia stanza, vedono il contesto e vedono anche l’ambito in cui stanno lavorando insieme a me. Ma c’è una cosa in più non trascurabile, poiché in realtà i pazienti sono solo un viso nella mia stanza e io sono solamente un viso nella loro stanza: come io non so se loro sono stati capaci di tutelare la loro riservatezza e la loro privacy, così i pazienti non possono sapere se la loro privacy e la loro intimità sono tutelate da me. Questo sollecita l’aspetto della fiducia della relazione come una cartina di tornasole: ti devi fidare del fatto che io ti tuteli.
E poi c’è anche un’altra questione legata alla paura che non circoli quella corrente affettiva che permette di depositare con fiducia le proprie parole tra le mani del terapeuta. Ieri, durante un incontro Skype, una paziente mi ha detto: “Sono stata molto contenta perché temevo di non sentirla vicina, pensavo che non potessi sentire una transazione affettiva tra noi, invece c’è stata”. Questa è stata la cosa più bella che mi si potesse dire, perché se manca questa capacità di stare insieme nelle parole, con un tessuto affettivo che le regge, le nostre diventano solamente delle relazioni intellettuali che non portano a niente.

Apprendista

La psicologia dell’emergenza è il settore della psicologia che si occupa degli interventi clinici e sociali in situazioni di calamità, disastri ed emergenza/urgenza. Più in generale, è la disciplina che studia il comportamento individuale, gruppale e comunitario in situazioni di crisi. Esiste anche una terapia psicoanalitica dell’emergenza con metodi e strumenti propri? Oppure possiamo immaginare che il nostro “modello” sia trasversale e utilizzabile anche nelle situazioni di crisi/emergenza?
Sui vari gruppi Facebook, come per esempio quello dell’ENPAP, ci sono pareri discordanti in merito a come approcciarci alle domande di aiuto in questo momento. C’è una società di psicologia dell’emergenza che caldeggia il suo approccio ma quello che io sento dalle persone che chiedono aiuto è un contenimento, un voler essere rassicurati.

Maestro

Io credo che il nostro modello sia trasversale. In fondo, il difficile compito che ci spetta in ogni relazione terapeutica, anche nelle situazioni di crisi/emergenza, è quello di dare un senso alla nostra esperienza, anche aprendo i nostri cuori al mistero. Certo, poter ritenere che un’esperienza fortemente traumatica non appartenga al regno dell’assurdo ma a quello del mistero apre a possibilità e a possibili spiegazioni che noi al momento non abbiamo. Quindi ancora una volta si tratta di sostenere e gestire la frustrazione di una risposta che a noi manca e tutto questo ci permetterà di sopportarla e integrarla meglio nella nostra storia personale. Dunque in questo senso io credo che le persone desiderino semplicemente una testimonianza: “Tu come te la stai cavando, tu che cosa stai facendo per gestire questa crisi, questa emergenza, questo trauma?”.
Oppure anche “Come hai fatto in altri momenti della tua vita a uscire da quella situazione?”. Dunque senza dare risposte (perché se siamo interpellati come terapeuti dobbiamo rispondere come terapeuti e quindi non dare consigli, infantilizzando la paura di chi ci chiede aiuto e che è già in una posizione infantile), ma sollecitando le risposte che ognuno può, tramite questa domanda, ricordare di essersi dato in situazioni di pericolo. Ovvero, dobbiamo aiutare chi ci chiama (o il paziente, anche se in questo caso non è un paziente conclamato) a trovare adesso quelle risorse che sicuramente nella sua vita ha utilizzato in altre circostanze. Questo è il modo per dare una buona risposta senza dare un consiglio che infantilizzi, perché in momenti come questi l’ultima cosa da fare è infantilizzare tramite consigli le persone e la loro paura che viene slatentizzata da questa situazione circostanziale.
Comunque, rimane vero il fatto che esiste tutta una disciplina che si chiama “Psicologia dell’emergenza” che ha messo a punto una metodologia che bisognerebbe approfondire e studiare. Sicuramente quello che possiamo fare noi è dare una risposta da terapeuti e quindi aspettare anche la domanda: abbiamo talmente l’ansia di trovare delle risposte che ci dimentichiamo che se non abbiamo una domanda non abbiamo granché da dire, anzi forse nulla da dire. Credo che offrire contenimento sia molto importante. Mio nipote di 20 anni mi chiama quasi tutti i giorni per parlare e in questo modo arriviamo a un contenimento. I primi giorni io non sapevo quale fosse esattamente la mia funzione e su cosa ero interpellata; la prima cosa che mi ha detto è stata: “Non mi dire che mi devo trovare delle cose da fare come leggere, guardare un film, fare ginnastica, ecc. Non me lo dire perché io per scegliere devo essere libero e se non sono libero non posso scegliere”. Allora io l’ho portato a riflettere sulla sua immagine e sulla sua percezione di libertà e questo è stato un contenimento che io ho svolto facendoci reciprocamente delle domande, proprio in linea con quello che dicevo prima. Ho capito di cosa avesse bisogno facendogli delle domande e lui mi ha detto che cosa non dovevo dirgli e di che cosa aveva bisogno: di essere accompagnato in un’analisi della situazione, verso un cambiamento di prospettiva. Infatti, per lui il limite e le restrizioni imposte arrivavano come un comando dittatoriale e non riusciva a vedere che in realtà facciamo tutti parte della medesima situazione. È vero che c’è qualcuno che mette a punto le regole che ci stanno somministrando, però è vero anche che tutti quanti siamo dentro e non stiamo subendo delle limitazioni per il godimento di altri. Insomma, l’essere aiutato a stare in una prospettiva utile è il contenimento, questa è la funzione che credo dobbiamo assolvere quando siamo interpellati: aiutare ciascuno a capire di che cosa ha bisogno per stare dentro questo specifico momento (che è davvero unico e speriamo irripetibile, anche se ce ne saranno altri). Aggiungo che è stato lui stesso a dirmi (nella sua saggezza di ventenne): “Sai che cosa si deve fare giorno per giorno? Bisognerebbe fare come ha scritto Primo Levi in Se questo è un uomo, dove diceva che l’uomo è impegnato nel sostegno della sua dignità ed è quello che lo tiene in vita”. Nei campi di concentramento quello che ha tenuto in vita qualcuno è stato farsi tutti i giorni la barba, lavarsi le ascelle, i piedi, ovviamente in linea con quello che era possibile in quel particolare contesto. Amare il corpo è amare la vita.
Amare la propria dignità di uomo. Di fronte ai soprusi e alle violenze che possiamo immaginare è questo che tiene in vita l’essere umano: la dignità, che non è sopravvivere, ma è dare vita alla propria dignità di essere umano.
La dignità, che è la cura del corpo, voglio dire che in questo momento di emergenza ci sono delle priorità e la classifica delle nostre priorità credo che debba guidarci proprio per nutrire di senso queste giornate. Sempre a proposito della cura del corpo e delle priorità, un amico di famiglia ebreo che era stato in un campo di concentramento raccontava che con la razione d’acqua che ricevevano lavavano per prima i denti, poi la faccia, poi le ascelle e così via scegliendo quali parti meritavano più cura di altre. Tuttavia, la prima parte sono i denti, ovvero la bocca che è il nostro primo tramite di rapporto affettivo con l’altro; quindi non sono solamente i denti ma anche la parola, cioè la bocca come trasmissione di parola, di affetto e di relazione.

Apprendista

Lavoro in un reparto di oncologia che adesso si è trasformato in un reparto Covid e molti infermieri mi stanno contattando perché stanno vivendo esperienze veramente traumatiche, nonché cumulative e continuative, giorno dopo giorno. Stavo cercando di ragionare su come effettivamente il contenimento sia davvero una delle richieste principali, ma insieme a quello, ripensando ai vari colloqui, mi vengono in mente altri due aspetti.
In primo luogo, una delle richieste implicite è la possibilità di tornare ad avere un senso di autoefficacia rispetto anche alle piccole scelte fatte. Ad esempio, mi viene in mente una ragazza che mi diceva di aver iniziato a sviluppare degli attacchi di panico; tuttavia proprio questi attacchi le hanno permesso di piangere davanti alle sue colleghe e di parlare di come stava e di tutti quei pensieri che invece prima non si era permessa di fare per non mandare le altre in agitazione. Lei credeva di essere l’unica a vivere quella fatica e quel dolore, ma in realtà grazie a lei si è aperta la possibilità di parlare di ciò che prima tutti negavano.
In secondo luogo, emerge il paradosso che riguarda il fatto che la società richiede alle figure del medico, dell’infermiere e spesso anche alla figura dello psicologo, l’onnipotenza di poter essere presenti e di poter davvero curare e salvare. In realtà, invece, succede che il personale ospedaliero si trovi, ad esempio, di fronte all’impossibilità di dare un presidio respiratorio ai colleghi del reparto accanto perché è possibile che da un momento all’altro si ammali anche una persona del proprio reparto a cui quindi potrebbe servire quel presidio. Di fronte a situazioni come questa nasce quel senso di “Che cosa posso scegliere di fare, che cosa è giusto? Non posso salvare tutti e non posso far altro che accettare la mia limitatezza”. Se fino a quando lavoravo con i pazienti oncologici avevo imparato ad accettare un certo tipo di limite, questo nuovo tipo di limite è diverso e non riesco ad accettarlo. Nonostante mi sembri che la situazione sia molto simile (cerchiamo di salvare le persone, che sia da un tumore o dal Coronavirus), è come se si sia riattivato un senso di onnipotenza. Forse si cerca di evitare il senso di impotenza attraverso l’illusione di onnipotenza (che ovviamente poi è crollata subito). Quindi, accompagnare il personale sanitario a fare un pensiero rispetto a queste richieste magiche da parte della società, in qualche modo, ci permette di tornare a sentirci esseri umani.

Maestro

Vorrei aggiungere che capire e accettare i limiti non significa accettare la nostra impotenza, ma accettare il limite è un atto di grande forza e potenza reale che ci permette di fare quello che dobbiamo, vogliamo e possiamo in questo momento. Quindi accettare il limite è un atto di potenza.

Apprendista

Avrei ancora una domanda riguardante l’assenza del corpo: mi domandavo se non fosse un ostacolo. Riflettevo sul fatto che l’assenza del corpo può essere un ostacolo alla connessione degli inconsci, al lavoro delle immagini nel preconscio, alla rêverie, laddove credo che il corpo vissuto sia essenziale: la carne, il calore che emana, il profumo, tutta quella parte che passa per messaggi subliminali e che arriva anche a formare le immagini inconsce.

Maestro

Sì, secondo me sì. Io preferisco di gran lunga la relazione in studio, quindi fisica. Tuttavia l’assenza fisica in una situazione del genere rappresenta un’affermazione, un’espressione affettiva nei confronti del paziente: io non vedo il paziente solamente perché devo preservarmi da un possibile contagio, ma anche per preservarlo, quindi ci preserviamo insieme.
Aggiungo una riflessione: un conto è continuare delle terapie via Skype con un paziente consolidato, un altro conto è iniziarle ex novo. In quest’ultimo caso dal mio punto di vista non dovrebbe neanche minimamente sussistere il dubbio, però se c’è una storia pregressa probabilmente costruiamo i nostri fantasmi e il corpo lo mettiamo anche laddove non c’è. L’esperienza reciproca che abbiamo avuto del corpo l’uno dell’altro (del terapeuta e del paziente) entra anche se esso non c’è, perché funzionano la memoria, il ricordo, la necessità, il bisogno che ci sia il corpo. Quanto più una storia ha una sua fondatezza, tanto più la si può sospendere fisicamente in momenti necessari come questo.
Tuttavia, anche se non ho mai iniziato una terapia via Skype, credo che ci possano essere un incontro e una produzione di immagini che prescindano dalla presenza del corpo; credo quindi che possa funzionare.
Aggiungo una cosa che magari può servire: io ho una certa esperienza di relazioni Skype di tipo terapeutico. Sapete quando ho capito che funzionava e soprattutto funzionava dentro di me? Quando ricordando una situazione su cui riflettevo non mi ricordavo più se avevo visto il paziente vis a vis o su Skype. In quel momento ho capito che, almeno per me, la capacità partecipativa nella relazione era la stessa: non le distinguevo più.

Apprendista

Ma qual è la domanda di fronte alla quale ci pone il Coronavirus?

Maestro

Non credo che il Coronavirus ci stia ponendo delle domande. Credo, invece, che ci stia mettendo nella condizione di dover pensare più a fondo alla nostra vera natura. Per esempio, il nostro egocentrismo potrebbe portarci a ritenere, più o meno consciamente, che una tale punizione pandemica deve nascere da una grave colpa. Non è così, il Coronavirus è solo coerente con sé stesso, colpisce tutti, tocca a ciascuno di noi superare il turbamento che è nel nostro spirito per sostenere chi ci sta più vicino. Ecco, forse si potrebbe dire che il Coronavirus ci sta chiedendo di superare i nostri turbamenti per renderci disponibili all’altro.

Apprendista

L’emergenza Coronavirus ha sospeso il tempo. I ritmi frenetici della nostra quotidianità hanno subito un arresto improvviso: vuoto o ricchezza?

Maestro

Beh, vuoto e ricchezza interiore dipendono dal vissuto personale. In questo senso preferisco vedere questa emergenza come un’opportunità: quella di rivedere i nostri valori e le nostre priorità.

Apprendista

Bambini, adolescenti, adulti, anziani: come cambia la percezione del pericolo e quali emozioni sollecita la crisi nelle diverse “età evolutive”?

Maestro

La percezione del pericolo, da quello che vedo nella mia attuale scarsa frequentazione della città, credo che sia più degli adulti e meno per le altre fasi evolutive. Più che altro vedo che bambini e adolescenti, dopo una prima fase di curiosità/gioco, tendono ad annoiarsi, mentre gli anziani che ho incontrato risultano più fatalisti. Ho visto pochi anziani preoccupati ma più che per la vita per la perdita di autonomia derivante dalla sicura crisi economica che ci investirà.

Apprendista

Le generazioni che ci succederanno leggeranno sui libri di testo quanto accadeva “ai tempi del Coronavirus”. Cosa possiamo fare oggi per essere testimoni del domani? Quali tracce possiamo lasciare?

Maestro

Francamente non cercherei di lasciare tracce. Mi piacerebbe però non perdere la speranza di rimanere umano al di là di ogni fatica e disagio. Non vorrei concentrarmi sulla vita a ogni costo, anche a scapito della vita altrui. Non voglio andare al supermercato e litigare per l’ultimo pacco di pasta: pazienza, rimarrò senza pasta, cercherò di arrangiarmi e alla fine se proprio non c’è niente mi arrenderò all’evidenza e non mangerò niente. Ecco, non vorrei essere frainteso, ma credo che la vita non sia necessaria a tutti i costi mentre la dignità sì, la dignità è necessaria. Mi piacerebbe che il mio senso civico potesse avere il sopravvento sui miei istinti più bassi, sempre. Perché l’istinto di dare la gomitata al vicino per prendere l’ultima bottiglia d’acqua temo di averlo ancora, anche se mi sforzo di evitarlo. La dignità vorrei mantenerla. Quindi anche quando sento via Skype il mio paziente mi presento rasato. È prassi che io il sabato e la domenica non mi faccia mai la barba e quindi tu il sabato mi vedrai a scuola con la barba leggermente incolta, però dal lunedì al venerdì la faccio sempre e quindi tutti i miei pazienti mi vedranno rasato e addirittura col dopobarba. Ecco, la dignità sempre. Mi piacerebbe che da questa tragedia emergesse una coscienza collettiva più attenta alla salute pubblica e all’ambiente perché forse di questo negli ultimi tempi ci siamo un po’ dimenticati, l’abbiamo un po’ trascurato.

Apprendista

Immaginiamo tutti con sollievo il momento in cui saremo “ufficialmente fuori dalla crisi”. Ma con quali “scorie” avremo a che fare? Quali gli esiti? In molti parlano della crisi economica e delle sue conseguenze. Ma il mio pensiero va oltre: come ci sentiremo? Cosa avremo perso e cosa acquisito?

Maestro

Come ci sentiremo dopo questa crisi dipenderà da come ci saremo comportati oggi. In fondo, il futuro non è che la spiegazione del presente. Ecco perché è importante rimanere ancorati alla nostra umanità, al nostro senso civico, alla nostra dignità, all’idea di società che ci piacerebbe costruire. È importante continuare a sognare una società migliore e lavorare con lena perché questo sogno si realizzi.

Apprendista

Quando mi sono reso consapevole della gravità della situazione ho sentito l’esigenza di stringermi ai miei colleghi di lavoro e di scuola, per condividere i nostri punti di vista e le nostre incertezze. Ho sentito, come mai prima, un forte senso di appartenenza a questi due ambiti che, insieme alla mia famiglia, rappresentano il mio mondo. Ma che cos’è l’appartenenza? Che ruolo gioca nelle situazioni di grave emergenza?

Maestro

Riconoscersi appartenenti a una tribù dà quella sensazione di sicurezza di cui abbiamo fisiologicamente bisogno. Solo la cooperazione permette di esercitare un’azione più articolata e incisiva per il superamento di un pericolo così grande da sovrastare i singoli. In fondo, la capacità di cooperare insieme alla termoregolazione ha permesso all’homo sapiens di vincere la sfida evolutiva su tutti gli altri esseri senzienti.

Apprendista

Il momento di allerta e grande tensione in cui siamo immersi ci mette difronte alle nostre innumerevoli reazioni. Possiamo essere spaventati, insofferenti, arrabbiati, disgustati, indifferenti. Possiamo affidarci alle istituzioni e alle scelte governative o essere indignati nella narcisistica presunzione di essere in grado di fare di meglio. Ma come possiamo fare la nostra parte?

Maestro

Credo di aver già risposto a questa domanda quando ho detto che è importante continuare a sognare una società migliore e lavorare con lena perché questo sogno si realizzi. Questo è ciò che possiamo fare: sognare, sperare e lavorare con la massima energia e fiducia.

Apprendista

Quali possibilità per aiutare gli operatori sanitari, chiamati ad affrontare un’emergenza che sarà lunga settimane? Quanto una prolungata attivazione emotiva e cognitiva influirà sulla percezione della realtà? E in futuro, quando saremo “fuori dalla crisi”, quanto questo vissuto ci avrà condizionato nell’affrontare il ritorno al lavoro e alla vita quotidiana?

Maestro

Ascoltare con serietà e seguire scrupolosamente i suggerimenti forniti dagli operatori sanitari restituiranno senso e significato alla loro fatica e al loro coraggio. Se saremo sufficientemente uniti, se ci comporteremo come una nazione dedita al bene collettivo, allora ci ricorderemo di questo momento come di un passaggio eroico, precursore di un nuovo modo di intendere la democrazia, la società, il mondo in generale. Abbiamo la possibilità di incidere sulla coscienza collettiva di noi italiani ed europei.

Apprendista

Il mio pensiero va ai bambini. Il contatto è un bisogno primordiale. Come rendere accettabile l’assenza delle persone di riferimento e il limite impostoci sul contatto fisico?

Maestro

Se non ho capito male le modalità di trasmissione e contagio del Covid˗19, mi sembra che i bambini siano i più protetti, con le dovute precauzioni potranno mantenere i contatti con le figure di riferimento e, nel caso un loro genitore venisse isolato per una procedura di quarantena, sarà importante permettere loro di mantenere un contatto visivo e narrativo. Sarà utile parlare ogni giorno della persona assente, progettando il suo rientro a casa.

Apprendista

La paura della vicinanza generata negli adulti influirà sui loro futuri contatti sociali?

Maestro

La paura dell’estraneo è connaturata alla nostra specie ma anche il desiderio dell’altro. È sempre stato così, adesso è tutto solo un po’ più enfatizzato. Sono sicuro che dipenderà da come sapremo raccontare questo periodo storico, dal senso che sapremo dargli.

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L’apprendista, il maestro e la psicoterapia ai tempi del Coronavirus