La vita ai tempi del coronavirus

 

Ogni volta che prendo in mano questo scritto per completarlo, mi assale la sgradevole sensazione che sia obsoleto, tanto è mutevole la situazione emergenziale che stiamo vivendo. È come ingaggiare una lotta impari contro il tempo, in cui mi scopro immancabilmente in ritardo. D’altra parte, quando meno di un mese fa seguivo a distanza di sicurezza – o così credevo – il disastro di Wuhan, non mi sfiorava neanche lontanamente il pensiero che di lì a poco sarebbe capitato a noi. E se questo, da un lato, è la prova provata che il meccanismo di difesa della negazione esiste; dall’altro, è la riscoperta che esiste in noi, seppur in misura diversa, una certa capacità di adattamento o resilienza, che mettiamo in campo nei momenti di grande incertezza. Non sempre riuscendoci, come accade alle persone più fragili. Che mai come in questi giorni hanno bisogno di condividere preoccupazioni e paure. Non a caso uno degli slogan martellanti è: “Uniti ce la faremo”. Inutile negare che sentiamo aleggiare lo spettro della morte cui, noi occidentali in genere, siamo poco preparati. A ricordarcelo basta la sirena di un’ambulanza che squarcia il silenzio di queste notti surreali.

Cosa può esserci di conforto oltre alla condivisione? Forse coltivare un proprio spazio interno, da nutrire quotidianamente con ciò che ci sta più a cuore. Come musica, yoga, pittura, lettura e via dicendo. A tal proposito trovo piuttosto irritanti i richiami dei testimonial televisivi a svolgere questa o quella attività. Perché penso che non ne esista una che soddisfi tutti: è opportuno che ognuno scelga per sé. Rammento inoltre, ai vari soloni, che non tutti vivono in abitazioni così spaziose da poter dire: “Mi ritiro nei miei appartamenti”. Tante famigliole sono costrette in un bilocale con cane e gatto. Altre a convivenze molto difficili per motivi di vario genere. Dicevo poc’anzi dello spazio interno: da usare come baluardo per difenderci dal bombardamento mediatico, ad esempio. In cui rifugiarci per ritrovare equilibrio e lucidità, visto e considerato che un eccesso di ansia è controproducente per il nostro sistema immunitario. Da cui muovere le mosse per costruirci una nuova quotidianità, dal momento che quella vecchia e consolidata ci è stata scippata. Che ci rimandi il senso del quieto scorrere del tempo che esorcizza l’ignoto. Da ultimo, per accettare che la programmazione delle nostre vite, al momento, non possa che essere giornaliera. “Continua a mettere un piede davanti all’altro, e poi un giorno ti guarderai indietro e scoprirai di aver scalato una montagna” recita un adagio. Non è un’impresa facile perché richiede caparbietà, fiducia incrollabile e di questi tempi… Ma credo sia l’unico modo per non soccombere al duro cambiamento imposto alle nostre vite e alle nostre città. Desertificate, spettrali. In cui si aggirano straniti e sempre più numerosi gli homeless.

E ora qualche spaccato di vita quotidiana che risale a soli quindici giorni fa, ma che sembra appartenere a un tempo distante anni luce.

“Dottoressa, ce la stringiamo la mano, vero?”, mi dice un paziente uscendo dallo studio. “Purtroppo no”, gli rispondo. E cerco di spiegargli che la vicinanza emotiva prescinde da quella fisica. E che in tempi di coronavirus il non darsi la mano e il mantenersi a debita distanza sono gesti d’amore e di rispetto. Duri da digerire per chi soffre di carenza affettiva cronica e si sente costantemente respinto dal mondo. Il poterne parlare, però, diventa una preziosa e imprevista occasione di crescita. In linguaggio gergale si definisce: apprendimento non previsto o serendipità.

Per strada c’è poca gente. Fa strano, soprattutto negli orari di punta. Niente sciame di colleghi che escono dagli uffici a bersi un caffè insieme. Niente capannelli di studenti alle fermate dei mezzi. Delle poche persone in giro, molte hanno la mascherina. Altre, più timidamente, si coprono il viso con una sciarpa voluminosa. “Tanto siamo ancora in inverno, no?”, pensando così di non palesare la propria paura.  Io penso superficialmente: “Che esagerati!”.

Sui mezzi vige il tacito accordo di lasciare un posto libero tra sé e il vicino, occupando per intero lo spazio disponibile. E se ti viene un colpo di tosse, cerchi di reprimerlo in tutti i modi per evitare gli sguardi inferociti di chi ti sta intorno. Del resto, come dargli torto? Così ti rimangono solo due alternative: soffocare o passare per untore.

Telegiornali, talk show, giornali, social dicono tutto e il contrario di tutto. Notizie che si rincorrono. Fughe di notizie. Fake news. Interviste a esperti. Tanti. Troppi. Con opinioni legittimamente diverse. Interviste a politici, alcuni dei quali non smettono di fare campagna elettorale neanche davanti all’emergenza. Tutti contro tutti. Conclusione: l’incertezza aumenta e le persone sono sempre più disorientate. I vari appelli alla calma suonano come ingiunzioni paradossali perché, chi li invoca, visibilmente, calmo non è. Naviga a vista. Come tutti. D’altronde il coronavirus è nuovo e la medicina non è una scienza esatta. Si basa su proiezioni ed esperienze pregresse. Simili, non uguali. Per certo si sa che è molto contagioso, che noi non siamo ancora immunizzati e che al momento non esiste un vaccino. A complicare il quadro, ci sono gli individui asintomatici. Cioè quelli che non sanno di averlo contratto e che non si sa se siano contagiosi o meno. A proposito di ottica della complessità!

Per non farci mancare nulla abbiamo anche qualche giornalista che non sa neanche dove stia di casa l’etica professionale. Vedi il modo scandalistico di fare informazione. È proprio necessario – mi chiedo – sciorinare di ora in ora con fare lugubre, scandendo ogni singola cifra, il numero dei decessi e dei contagiati? Immancabilmente davanti a un reparto di terapia intensiva. Ultimamente con una variante. Ci comunicano frettolosamente anche il numero dei guariti. Forse devono avergli detto che fare dell’allarmismo è controproducente. E sconfina nel procurato allarme. Che è un reato.

E infine i criticoni, ai quali non va bene nulla a prescindere. I complottisti e quelli che “Noi italiani ci tengono chiusi in casa, mentre gli immigrati li fanno entrare senza controllo”.

Detto questo, avete presente cosa succede a un fascio di luce bianca, il coronavirus, quando attraversa un prisma, le persone? Si scompone in tutte le lunghezze d’onda della luce. Cioè nei colori dell’iride. È esattamente quello che è accaduto a molti di noi. Il disallineamento tra mente, anima e corpo, che spesso si verifica nelle situazioni che sfuggono al controllo, fa sì che la nostra umanità possa dare, oltre al meglio, anche il peggio di sé. E così convivono l’abnegazione del personale medico e paramedico e di tutte quelle categorie, spesso non citate, che mandano avanti il Paese. Il bigliettino affisso all’ascensore del condominio, in cui una giovane coppia si rende disponibile a comprare cibo e medicinali per chi è in difficoltà. La saggezza disincantata dei nostri vecchi, cui attingere a piene mani, al cinismo impietoso del leader britannico. Ad esempio. Che invita la popolazione a separarsi dai propri cari, perché ha intenzione di intervenire con misure restrittive, che hanno un indubbio impatto sull’economia, solo quando l’immunità di gregge sarà del 60%. Meglio perdere persone che valùta. Mi comunicano che nel frattempo ha cambiato idea. L’assalto ai supermercati per fare scorte di mascherine e amuchina, senza pensare a chi ne rimane privo. Non è durante la guerra che si sviluppano manie di accumulo? Qui l’età non conta: gli accaparratori non sono solo i novantenni. Il mancato ascolto degli appelli a rimanere a casa, per evitare che il contagio si propaghi, che denota superficialità oltre che scarso rispetto per il prossimo. È comunque tranquillizzante sapere che nihil sub sole novi. Nel capitolo trentunesimo dei Promessi Sposi, il Manzoni dice testualmente: “(…) Nella città (…) per l’imperfezione degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli e per la destrezza nell’eluderli, (…) la peste andò covando e serpendo lentamente tutto il restante dell’anno (…)”.  Anche allora, A.D. 1630, era di marzo. Corsi e ricorsi storici.

La terra sembra comportarsi come un gigantesco organismo. Da quel dì ci sta inviando segnali che stiamo andando verso un punto di non ritorno. E noi abbiamo fatto orecchio da mercante. Esattamente come facciamo col nostro corpo, quando non vogliamo ascoltarlo. Fino a che non ci ferma lui.

Certo ora abbiamo città meno inquinate, il traffico azzerato, stiamo scoprendo che possiamo fare a meno di una serie di generi e servizi voluttuari, stiamo di più in famiglia, ma che prezzo stanno pagando in molti?

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