SUI CONCETTI DI “RUOLO” e “GRUPPI”

CONVERSAZIONE CON LUCIANO COFANO

a cura di R. Calatroni e C. Di Prima

 

Premessa di Luciano Cofano

RUOLO

Il termine ruolo deriva dal teatro dove anticamente gli attori, sul palco, leggevano le proprie battute da un foglio di carta arrotolato, denominato rotulus, dal latino. Il termine rende bene l’idea della parte che ciascuno recita sulla scena della società, conformandosi alle aspettative e alle regole stabilite. Nelle scienze sociali indica il comportamento dell’individuo nella società in cui vive, in relazione alla posizione che vi occupa. Il concetto di ruolo implica necessariamente quello di interazione sociale, di relazione e, in sociologia, definisce l’insieme dei modelli di comportamento attesi, degli obblighi e delle aspettative che convergono su un individuo che ricopre una determinata posizione sociale. Spesso è associato al concetto di “status” in quanto una determinata posizione sociale comporta sia degli obblighi (ruolo) che dei benefici (status). Ogni status comporta numerosi ruoli (lo status di professore universitario comporta il ruolo di docente, di ricercatore, di collega, di autore di pubblicazioni accademiche, eccetera).

L’assunzione di un ruolo istituito è associato, quindi, allo svolgimento di specifiche funzioni (facente funzione, funzionario) che, ovviamente, richiedono la necessaria competenza (il potere intrinseco del soggetto del sociologo Franco Crespi, cioè la capacità di gestire la differenza tra determinatezza e indeterminatezza).

Quando il ruolo implica una inter-relazione presuppone una reciprocità, cioè la presenza di un ruolo complementare (non c’è un padre se non c’è un figlio, e così docente-allievo, terapeuta-paziente eccetera).

Qual è la differenza tra “fare” il terapeuta ed “essere” terapeuta? La naturale aspettativa di chi inizia una formazione in psicoterapia è quella di sapere “cosa e come si fa”, e questo fa parte dell’insegnamento, mentre sapere cosa vuol dire “essere” terapeuta può derivare soltanto dall’esperienza vissuta.

Se qualcuno mi rivolgesse la domanda «Tu chi sei?» io risponderei «Sono Luciano Cofano». Alla domanda «E cosa fai?» risponderei «Come lavoro faccio lo psicoterapeuta». Intendo cioè dire che, nello svolgimento del mio ruolo, sono sempre io, Luciano Cofano, non come “personaggio” sulla “scena terapeutica” ma come “persona”, con tutto il mio bagaglio culturale di convinzioni e preconcetti, giudizi e pregiudizi, preferenze e idiosincrasie, memorie, emozioni, sentimenti eccetera. In altri termini, il mio “status” di terapeuta non definisce una mia “identità” ma una mia “funzione” in un “ruolo” attribuitomi dal paziente (è il paziente che sceglie il terapeuta presupponendo la sua competenza).

GRUPPI

Secondo la mia esperienza, per la loro specifica funzione nel nostro campo si possono distinguere tre differenti tipi di gruppi di lavoro: gruppi terapeutici, gruppi di formazione didattica e gruppi di supervisione.

Nei gruppi terapeutici l’attenzione, ovviamente, è rivolta alla condizione di malessere esistenziale che ha indotto ciascuno dei pazienti a rivolgere una domanda di aiuto.

Nei gruppi di formazione didattica si crea l’occasione di una esperienza teorico-clinica che possa favorire una formazione professionale nella conduzione di un lavoro psicoterapeutico.

[Non esiste una “analisi didattica”: Tommaso Senise non mi ha mai “insegnato” qualcosa, mi ha guidato e accompagnato in una lunga e indimenticabile esperienza di trans-formazione ].

Nei gruppi di supervisione l’oggetto del lavoro è una riflessione critica su questioni relative alle vicende di un caso clinico, presentato da uno dei partecipanti che sono, quindi, terapeuti già formati. Una formazione che non può mai essere considerata esaustiva perché l’esperienza della relazione terapeutica si rinnova nell’irripetibilità di ogni nuovo incontro.

In tutti questi tre gruppi di lavoro è implicita l’aspettativa di un “vantaggio formativo” sia a livello cognitivo sia, soprattutto, a livello operativo. In questo processo maturativo va riconosciuta l’importante differenza tra “informazione” e “formazione”: mentre, infatti, un’adeguata informazione arricchisce il necessario patrimonio cognitivo attraverso lezioni, seminari, lettura di testi eccetera, la formazione della capacità operativa, che implica direttamente lo sviluppo delle risorse relazionali caratterologiche dell’ope­ratore, può maturare soltanto attraverso l’esperienza vissuta.

Domande

Quali sono le condizioni minime perché un gruppo analitico sia efficace?

Io riservo il termine “gruppo analitico” a quello formato da un insieme di persone che accettano consapevolmente il lavoro di un’esperienza psicoanalitica, condivisa con alcune altre persone. Con questa affermazione so di riaprire un capitolo mai discusso approfonditamente su quella che per me resta una differenza tra “psicoanalisi” in senso stretto e “psicoterapia”, sia pure analiticamente orientata. Intendo dire che se la psicoanalisi può essere considerata un modello specifico di psicoterapia, non ogni tipo di psicoterapia può essere considerata una terapia psicoanalitica.

È evidente che, sotto questo profilo, le condizioni minime per una efficace partecipazione possono variare notevolmente.

Quali sono le funzioni specifiche del terapeuta di gruppo e in cosa si differenziano da quelle del terapeuta individuale?

Per quanto riguarda le mie funzioni come terapeuta individuale e di gruppo, posso dire che non trovo specifiche differenze tranne, ovviamente, quelle che riguardano il differente contesto. In tutti e due i setting, comunque, il proposito è quello di favorire un’esperienza relazionale che, attraverso un’attenzione riflessiva, aiuti il paziente a modificare l’immagine stereotipata che ha di sé grazie al riconoscimento, recupero e rielaborazione dei propri vincoli transferali.

La psicoterapia di gruppo è indicata per tutti i pazienti?

Da quanto detto prima, mi sembra evidente che si possono fare delle distinzioni a seconda del tipo di gruppo. E qui si aprirebbe un discorso sui tanti differenti tipi di gruppo che sono oggi intesi come terapeutici. Comunque, in linea di massima potrei dire che l’esperienza del gruppo si dimostra quasi sempre vantaggiosa.

Quali sono le condizioni necessarie per far sì che si sviluppi il pensiero di gruppo e quali sono le sue caratteristiche?

Secondo me, pregio principale del setting gruppale è la particolare esperienza di condivisione e la sua polisemia, cioè tante differenti “voci” che possono confrontarsi facendo da cassa di risonanza alle comunicazioni di ogni singolo paziente. Compito del terapeuta è sicuramente quello di favorire e valorizzare queste dinamiche.

È chiaro che si può entrare nel dettaglio. L’immagine da cui parto è quella del “tiro al piccione”; cerco di spiegarlo con un esempio. Durante un gruppo di supervisione un collega presenta il caso di un paziente e gli altri: “Colpito, giusto, sbagliato” eccetera, cioè tutti stanno attenti alle parole dell’altro per dire se ha ragione o meno, oppure si chiedono cosa possono commentare o suggerire. Cioè, ripeto, si occupano dell’altro. Ciò che io cerco di fare, e non è tanto agevole, è porre i compagni in una condizione riflessiva, anziché in una posizione critica. Non hanno in quel momento la responsabilità di dare la risposta al paziente, sono liberi. E allora: “Occupati di te. Cosa provi? Cosa suscita in te quello che l’altro sta dicendo?”. È come una palestra in cui tu ascolti l’altro ma ti rendi conto che quello che l’altro sta dicendo suscita in te delle cose; la potenza del gruppo è nella possibilità di verbalizzarle, possono essere esplicitate, può comparire questa polisemia, questa plurivocità, e allora “il caso” diventa occasione di una ricchezza enorme, si favorisce qualche cosa di incredibilmente fertile. È il vedere quante cose possono variare, quanto c’è di soggettivo, come sono io di fronte alle cose di cui gli altri parlano, perché poi sono quell’io che dovrà essere in contatto col paziente nel momento in cui dovrò svolgere il mio ruolo. Lì è importante che io impari a riconoscermi, non a conoscere il paziente, non conoscerò mai il paziente, è importante che impari a riconoscere me nel mio essere in relazione col paziente.

CDP: Certo, quando funziona così si vede un movimento generativo in atto ma a me sembra possa capitare, fortunatamente è raro, che ci siano dei personaggi all’interno del gruppo che non sono in grado di ascoltarsi e non mettono mai in discussione se stessi, continuando quel tiro al piccione…

Perché nell’ascolto prevale il giudizio se la cosa è giusta o sbagliata, non viene valorizzato quello che tu dici e cos’hai provato: è quello il tuo valore. Se devo gratificare il tuo narcisismo ti valorizzo perché hai pensato qualcosa, non sei inerte, hai sentito e questo è un valore; è importante che tu possa sentirtene soddisfatto. Ognuno teme di dire cretinate, pensa che per parlare si debbano dire cose importantissime; poi c’è la competizione, la rivalità ma, in sostanza, c’è la mancata confidenza di denudarsi. Bisogna favorire quella condizione di confidenza, di intimità che non nasce dal fatto di dire tutti la stessa cosa ma dal dire ciascuno la propria, riconoscere che è un valore la singolarità. Non è affatto vero e giusto che vada bene quando arriviamo a dire tutti la stessa cosa, non è quello il compito.

In che modo avviene la suddivisione degli spazi e dei ruoli all’interno del gruppo?

Dipende da come viene favorita la cultura del gruppo. Se viene favorita la possibilità di riflessione e d’espressione, si crea un contesto in cui il ruolo che io assumo non può in nessun caso essere avulso dal contesto nel quale mi trovo. Il contesto è sempre un presupposto che può condizionare il tipo di ruolo. Tu non sei lo stesso dovunque, a seconda delle situazioni sei in un modo o in un altro. La facoltà o la facilità che certi ruoli, o certe emergenze transferali, chiamiamole così, possano essere favorite o evitate dipenderà moltissimo dal tipo di cultura gruppale che si sviluppa.

Il gruppo può essere inteso come oggetto-sé?

Domanda metapsicologica più che psicologica. Se parliamo di gruppi o di gruppalità parliamo di un’esperienza esistenziale che è implicita nella natura filogeneti­camente relazionale e sociale del genere umano.

C’è una bellissima definizione del gruppo di Harry Guntrip:

«L’individuo e il gruppo si compenetrano reciprocamente in modo tale che qualsiasi tentativo di studiarli separatamente sarebbe del tutto irreale. Non esiste prima un individuo definitivamente formato, chiaro e completo in sé, e poi un gruppo formato da un certo numero di questi individui autonomi semplicemente giustapposti; piuttosto il gruppo entra nella formazione e nella struttura dell’individuo, mentre di pari passo gli individui, nell’ambito delle loro relazioni personali, vengono costituendo il gruppo. Gli individui e i gruppi entrano scambievolmente nella propria costituzione con modalità estremamente complesse, come è dimostrato dallo studio psicodinamico dei rapporti oggettuali umani.»

Certamente il gruppo è oggetto di investimenti libidici e può essere considerato da diversi punti di vista ma a me sembra più utile concepirlo come “contesto” piuttosto che come “oggetto”. Secondo la mia esperienza, la grande maggioranza dei miei pazienti ha vissuto il gruppo di analisi come “appartenenza”, con la connotazione affettiva di un ambiente famigliare, e parecchi di loro hanno conservato nel tempo reciproci sentimenti fraterni. In effetti, la confidenza e l’intimità che si raggiungono in un gruppo di analisi sono sentimenti di una intensità che, il più delle volte, è maggiore anche di quella vissuta in famiglia.

Per un terapeuta è possibile coniugare l’attenzione al singolo paziente con una visione d’insieme delle dinamiche del gruppo?

Bisognerebbe chiarire cosa vogliamo intendere con l’espressione “dinamiche di gruppo”. È un argomento complesso perché riguarda un intreccio di interazioni personali a diversi livelli.

Parlando delle dinamiche che si attivano all’interno di un gruppo di analisi, in questi anni sono state adottate diverse prospettive, sinteticamente riconducibili alle denominazioni di “analisi in gruppo” (Samuel Slavson, Jeffrey Schwartz, Michael Balint) – una sorta di trattamento circolare che prendeva in considerazione i singoli individui costituenti il gruppo, ignorandone le reciproche relazioni interpersonali –; una “analisi di gruppo” ­– che faceva invece riferimento alla dinamica del gruppo nel suo insieme (gli “assunti di base” di Bion), con una tendenziale massificazione dei partecipanti – e una “analisi attraverso il gruppo” (Siegfried Foulkes, Trigant Burrow) che, fondata essenzialmente sulla dimensione relazionale, rappresenta la scelta di campo da me adottata a tutt’oggi.

Che tipo di dinamiche transferali emergono all’interno di un gruppo terapeutico?

Le proiezioni transferali di ogni soggetto sono sempre condizionate dal contesto in cui si attivano e, sicuramente, un gruppo terapeutico connota un contesto particolare ma, in un certo senso, non potrei dire di riconoscere uno specifico transferale del gruppo terapeutico. Peraltro, è un contesto che può e dovrebbe favorire ed evidenziare le caratteristiche relazionali – ­­e quindi transferali – di ogni soggetto.

Quale può essere il vissuto del gruppo all’arrivo di nuovi membri e all’uscita di membri vecchi? In che modo il terapeuta può affrontare questi momenti?

Questo è un evento che caratterizza una chiara differenza tra il setting individuale e quello gruppale (aperto), che consente di evidenziare anche alcuni aspetti delle relazioni transge­nerazionali. Un altro fattore di rilievo che, sicuramente, connota la differenza tra i due setting è la persistenza dello specifico culturale nella storia di ogni gruppo: nel tempo, infatti, ogni gruppo sviluppa un proprio “linguaggio familiare” che persiste nel tempo, mentre va perduto con il termine di un setting duale.

In che modo le più recenti scoperte nel campo delle neuroscienze possono essere applicate alla psicoanalisi dei gruppi?

Le neuroscienze sono molto utili in quanto consentono di stabilire i correlati neurobiologici dei vari concetti metapsicologici.

Per quanto mi riguarda, la conoscenza della neuroplasticità e della struttura relazionale della mente ha rafforzato la mia convinzione che il potenziale trasformativo di ogni forma di psicoterapia non è di tipo cognitivo ma si fonda, essenzialmente, sulla possibilità di vivere un’esperienza relazionale che possa modificare l’organizzazione strutturale e l’immagine precostituita che ogni soggetto ha di sé: “Sono fatto così!”.

Qui ricordo due episodi. Un signore di una cinquantina d’anni viene da me e con molto candore dice che ha già fatto quattro analisi e afferma: “Ora so tutto di me, ma non è cambiato nulla”. Era vero, ma ciò che conta non è quello che sai ma cosa ne fai.

Come esempio di questo cambiamento mi porto dentro da lustri l’esperienza di una paziente sul lettino. Dopo qualche mese di analisi, in una seduta accadde qualcosa di nuovo: non ricordo più cosa avesse detto lei e cosa io avessi detto a mia volta; ricordo, però, che si girò e mi guardò dicendomi “Lei allora mi ascolta veramente?”, con sorpresa. La cosa sorprendente non era l’avere scoperto che c’era qualcuno che l’ascoltava veramente, perché l’esperienza nuova per lei era di essere ascoltata veramente, un’esperienza trasformativa. Questa donna era quella che in famiglia non valeva nulla, non era ascoltata, quindi quest’esperienza è stata veramente sconvolgente, semplicissima, banale, ma ha modificato qualcosa. Ricordo la diversità quasi immediata del suo modo di comunicare, mi parlava in modo diverso. Si tratta di una trans-formazione, un cambiamento fondato sulla neuroplasticità. Le caratteristiche relazionali di ogni soggetto non sono determinate da codici scolpiti nella roccia, perché sono modificabili. Persistono perché sono confermati dall’esperienza. Tendono ad agire in un certo modo perché connaturati. Quando si scopre che può esserci una risposta alternativa può cominciare il cambiamento. Qui siamo di fronte al problema della struttura relazionale della mente: si tratta di neuroni che si organizzano in un certo modo e formano dei pattern. Finché c’è quel pattern c’è la risposta trovata dall’esperienza che fa da attrattore. È talmente automatizzata che risponde prima che tu possa pensare a qualcos’altro e questo non fa che creare un rinforzo. L’esempio che faccio qualche volta è quello dell’acqua. Se l’acqua della pioggia scorre lungo un pendio lascia una minima traccia del suo passaggio ed è facile che l’acqua della pioggia successiva segua la stessa traccia. È così che nascono i ruscelli, i fiumi, i canyon. Io sono stato in Arizona e ho visto il Gran Canyon del Colorado: è nato così. Il fiume Colorado non può che seguire quel percorso. Ma se apri un nuovo canale l’acqua può cambiare il suo corso. Ecco la necessità che si formi una nuova via percorribile che, se incrementata, diventa più frequentata dell’altra che, invece, diventa obsoleta, dimenticata, indebolita. Un paziente mi dice “So tutto ma non è cambiato nulla” e in un’altra, per cui non era successo niente, era cambiato tutto.

Per me qualcosa è cambiato in questi anni e cercherò di chiarirlo.

Freud adotta il lettino dichiarando di non tollerare l’essere esplorato per tutto il giorno dagli sguardi indagatori dei pazienti. Poi, nella ortodossia freudiana il lettino entra a far parte del setting perché favorisce la regressione del paziente a uno stato di dipendenza (la depressione anaclitica di René Spitz, cioè carenza di amore materno), funzionale alla interpretazione del transfert, cardine della teoria pulsionale classica.

Oggi, con il lavoro analitico basato sulla teoria delle relazioni oggettuali, il naturale vissuto di dipendenza che si attiva nella coppia paziente-terapeuta, non più intenzionalmente indotto dall’analista, può essere utilmente riconosciuto come una proiezione transferale del paziente. Fin dall’inizio, infatti, nell’immaginario del paziente la figura del terapeuta è investita di proiezioni transferali di tipo genitoriale cui, solitamente, corrisponde una speculare identificazione cotransferale del terapeuta con un ruolo paterno. È sempre importante potere qui distinguere il “come se” dalla realtà. C’è, infatti, una differenza tra dipendenza affettiva e dipendenza funzionale: se per andare in qualche posto prendo un tram sono in una posizione di reale dipendenza funzionale dal tranviere.

Quale può essere per te il “punto di arrivo” di un progetto terapeutico?

Risponderò a questa domanda con un breve esempio tratto dalla mia esperienza personale. Giunta praticamente verso la fine della sua analisi, una paziente realizza un progetto che aveva da sempre rappresentato per lei una specie di irraggiungibile sogno. Decide, cioè, di realizzare un miraggio che poteva accarezzare solo nella sua fantasia: un trekking solitario sull’Himalaya. Il sapere dalla sua storia quanto per lei fosse profondamente significativo questo progetto serviva in parte a tacitare la mia comprensibile preoccupazione. Al suo rientro, dopo quasi tre mesi, con una vitalità e una pienezza che peraltro non avevano nulla di “trionfale”, il racconto della sua straordinaria avventura mi confermava che si era trattato di una pietra miliare che testimoniava una svolta della sua vita. Mi dice poi che, verso la fine del suo viaggio, aveva fatto un sogno: in un primo momento aveva avvertito una certa esitazione all’idea di raccontarmelo per il timore che io potessi fraintenderne il contenuto, ma poi si era sentita sicura che io ne avrei certamente colto il senso che aveva per lei. Nel sogno, si trovava nel suo sacco a pelo, al riparo di una roccia, in un momento di riposo dopo una faticosa marcia di ritorno lungo un sentiero di montagna, e si apriva davanti ai suoi occhi l’indescrivibile sconfinato orizzonte della catena dell’Hima­laya. Nel guardarsi intorno vede che dietro di lei riposa lo sherpa che aveva reso possibile questa sua indimenticabile esperienza, guidandola per quasi due mesi nel suo viaggio avventuroso ma lasciando sempre a lei la scelta delle sue mete, condividendone tutti i momenti belli e brutti, e portando su di sé anche il carico di parte del suo bagaglio. Mentre lo guarda con commozione e gratitudine si accorge che lo sherpa ha il mio viso.

Secondo una certa immagine stereotipata, lo sherpa viene considerato come una specie di “servo”, ma io credo che questo sogno abbia per me rappresentato uno dei più gratificanti riconoscimenti del mio lavoro.

Questo esempio può anche servirmi per concludere chiarendo ulteriormente il mio punto di vista circa il problema del presunto “potere” dell’analista. Lo sherpa (nella realtà erano due) è certamente colui che ha reso possibile la realizzazione del progetto della mia paziente, grazie alla sua esperienza della vita di montagna che gli consente di conoscerne le risorse e prevederne i pericoli, di trovare o sapere costruire un rifugio per la notte, di affrontare e superare nel modo più opportuno le difficoltà che si incontrano nel cammino, e alla sua capacità di accompagnarla nel viaggio, sopportandone anche parte del carico ma lasciandole la libertà di stabilire le proprie mete e rispettandone i tempi.

Un ruolo profondamente diverso da quello di conduttore di un “viaggio organizzato” secondo mete, modi e tempi prestabiliti dalla sapienza di qualche “agenzia specializzata”.

Come dicevo, in questi ultimi anni qualcosa di sostanziale è cambiato nel mio modo di concepire il ruolo di terapeuta. Grazie alle suggestive immagini dei recenti giochi olimpici, potrei dire che considero il mio ruolo simile a quello che quando eravamo italiani si chiamava “allenatore” e oggi che siamo europei si chiama “coach” o “personal trainer”: l’obiettivo per il paziente, però, non è di risultare vincitore nella sua competizione con altri ma di sviluppare e perfezionare le sue potenziali risorse in una sorta di sfida con se stesso. Un lungo e impegnativo lavoro di auto-ri-organizzazione strutturale della propria identità.

Se in un primo tempo è naturale e anche utile che il paziente possa vivere un’esperienza di dipendenza transferale, alla fine il risultato sarà tanto migliore quanto più il paziente si sarà riappropriato della sua indipendenza di soggetto come co-autore del progetto terapeutico. Un fondamentale cambiamento di prospettiva, in cui il paziente può progressivamente passare dal ruolo di paziente, cioè da oggetto di cura – più o meno passivo –, a quello di principale artefice del proprio prendersi cura di sé.

Quali letture suggeriresti a un terapeuta che desideri imparare a lavorare con i gruppi?

Oggi c’è una vasta letteratura sui gruppi ma non saprei cosa suggerire perché la mia esperienza si fonda soprattutto sugli oltre cinquant’anni di lavoro con i gruppi.

 

Ulteriori riflessioni

RC: Partirei dall’esperienza diretta, da esempi concreti. Il primo riguarda la formazione del gruppo iniziale. Sto conducendo un gruppo che è stato formato da un altro terapeuta che si è occupato della selezione dei membri. In certe situazioni rilevo sensibili differenze tra i partecipanti del gruppo rispetto a preparazione culturale, capacità di lettura delle dinamiche, capacità di ascolto. Ad esempio c’è una ragazza di 24 anni neolaureata in biologia e un giovane operaio diciottenne. Parlano un linguaggio molto diverso. A volte mi sembra di cogliere una difficoltà di sintonizzarsi, come se attraversassero fasi di vita molto diverse… C’è una certa difficoltà da parte mia a mettere insieme alcuni contenuti che emergono e che sento distanti tra loro.

LC: Ti rispondo con un ricordo. Anni fa tra i partecipanti di un gruppo di analisi c’erano un docente universitario in carica e un operaio della Fiat. Se non ci fossero stati avrei dovuto inventarli: l’operaio della Fiat, che poteva parlare soltanto in termini di emozioni, di quello che sentiva – termini semplici in confronto alla magniloquenza del docente –, era di una tale semplicità e immediatezza che mentre quello che diceva Salvatore lo capivano tutti, quello che diceva il docente… molti si chiedevano cosa volesse dire. Dove voglio arrivare: se l’esperienza di lavoro, di formazione (perché l’analisi è un’esperienza di formazione) non è di tipo cognitivo ma di tipo emozionale, ti posso garantire che le emozioni di Salvatore erano assolutamente comparabili con quelle del docente. Era lo stesso linguaggio, apparentemente lontano ma assolutamente comparabile. Nel momento in cui diventa chiaro che la moneta pagante non è la scienza ma il vissuto e quindi la memoria, le emozioni, i sentimenti, questi possono essere espressi con parole auliche o semplicissime, ma sono patrimonio di tutti. Sta all’esperienza del conduttore riportare questa apparente distanza a qualcosa che può essere confrontato sul piano che conta.

RC: Con questa risposta mi veniva in mente che effettivamente alcuni tra i momenti più ricchi sono stati quelli in cui si è riusciti a parlare un linguaggio comune. Ricordo ad esempio una seduta in cui era emerso un sentimento di vuoto da parte del ragazzo più giovane e questa cosa ha permesso all’altra di agganciarsi emotivamente ed entrare in risonanza.

LC: Di togliersi l’armatura…

RC: Esatto. Lo ricordo come un momento importante.

LC: Non è che sia proprio dietro l’angolo… ci si arriva faticosamente, poi, se c’è una frequenza continua delle sedute, si forma un linguaggio, si forma il linguaggio famigliare, il dialetto di gruppo.

RC: Anche sulla questione della continuità… soprattutto i ragazzi più giovani sono piuttosto discontinui nella partecipazione. A volte non vengono e giustificano le assenze con impegni di lavoro, studio o altro. Forse il fatto che sia un gruppo gratuito di porta aperta può avere un peso…

LC: Non è quello, non è in termini di soldi perché in realtà pagano col fatto di impegnare il loro tempo. Il sacrificio non è monetario ma di tempo, di modo, di risorse. Questo è un punto molto delicato. Prima tu accennavi alla selezione, se si può chiamare così. Dipende da quello che il paziente investe nel gruppo. Ci sono chiaramente due aspetti: uno più razionale che lo porta a dire “Devo fare questa cosa”, e l’altro che tende a “giocare a modo suo”. Questo “giocare”, è parte del lavoro. Il fatto che vengano e scompaiano dipende da come intendono la loro partecipazione, che senso le danno, che valore ha per loro l’esserci, è qualcosa che non può essere prescritto ma deve essere valutato. Io da sempre ho rinunciato a fare previsioni, prognosi. Scordati di poter fare previsioni su questo piano proprio perché c’è una enorme massa di fattori di cambiamento.

L’investimento, quello sì. La gratuità può essere presa come una “sine cura” mentre potrebbe essere l’occasione per valutare che cosa tu puoi fare per te, ammesso che condividi il fatto che partecipare a questa esperienza sia qualche cosa che ti serve. In questo caso quanto sei disposto a investire nel prenderti cura di te?

RC: È una cosa che si può interrogare nel contesto del gruppo?

LC: Sì, stando molto attenti a non considerarlo come un difetto o come un errore o una mancanza, ma come una condizione che si presta all’osservazione e che ci suggerisce come siamo fatti, né giusti né sbagliati. Se è così la rileviamo, non può non esserci. Il fatto che ci sia non dice né bianco né nero, dice solo che c’è e che abbiamo a che fare con essa.

Non cerchiamo la perfezione, l’obbedienza, cerchiamo di capire come siamo fatti.

RC: Questo aspetto, che spieghi in modo così chiaro, non è semplice da realizzare nella pratica.

LC: Se ce l’hai dentro riesci a coglierla, a tollerarla, ti aiuta anche nel modo di porti, ti “predispone a…”. L’importante è che tu ne abbia consapevolezza.

RC: Sì, a volte si sente dire dagli altri membri del gruppo: “Ma quello lì… Non viene mai, non gli importa”!

LC: Qui si tratta della ricerca di un senso: è una manifestazione, è un’espressione, non è una mancanza.

Devi fare i conti con i tuoi pregiudizi. L’idea che quando entro nella stanza d’analisi divento l’analista non va bene: altrimenti creo una scenografia teatrale, divento personaggio col suo copione, un rotulus, un copione. Allora “devo” essere l’autoritario, e così mi allontano sempre di più dall’essere io lì in mezzo a loro, partecipe, ma poi pretendo che ci siano loro…

CDP: Prima, in un passaggio scritto sopra, hai detto che Senise non ti ha insegnato nulla di teorico ma ti ha permesso di svolgere un percorso trans-formativo. Tu credi sia sempre possibile poter formare bene uno psicoterapeuta?

LC: Che cosa vuol dire formare? Un terapeuta si forma per dare senso alla sua relazione col paziente. Allora il gioco, il punto di arrivo è che cosa passa tra questi due. Perché io dicevo che il gruppo di formazione didattica è fondamentale? Perché è la palestra dove il terapeuta in formazione può essere lì e sentire quello che succede agli altri e capire cosa succede a lui, e che cosa gli verrebbe da dire, accorgendosi che si potrebbe dire anche un’altra cosa.

CDP: Ecco, la tua abilità consiste nel dare un bell’esempio di quanto hai appena detto perché tu per primo ti metti in ascolto, e i discenti grazie al tuo esempio capiscono. Altri formatori potrebbero essere più tranchant e dire “No, così non si fa”, invece che interrogare.

LC: La risposta, “Così non si fa”, non è che sia campata in aria, è la sentenza di un processo. Ma dalla sentenza puoi risalire al processo e allora ti accorgi che non è che “non si fa così” perché forse questa è la condizione migliore possibile per essere… oppure non è la condizione migliore possibile ma forse c’è qualcosa che ha interferito o favorito una deviazione. E questo diventa oro, diventa il momento di conoscenza delle perturbazioni. Ciò che io cerco di dire con le parole è che si parla tanto di setting ma si intende sempre il setting funzionale “esterno” e non il setting “interno”; il setting che io considero è come sono settato io: qual è il mio set, il mio punto di base? Se premo il pulsantino reset, qual è il mio punto base di partenza? Su cosa si fonda il mio agire? È lì che io posso dare un senso a quello che faccio, se è coerente con il mio presupposto o se il mio comportamento in quel momento è difforme rispetto a quello che il mio presupposto vorrebbe. Può succedere, non è né giusto né sbagliato, è da prendere in considerazione perché se è successo vuol dire che c’erano delle condizioni che lo hanno fatto accadere. Quello che mi importa non è che cosa sarebbe stato se non fosse successo ma cosa è stato a far sì che succedesse. Pertanto bisogna allontanarsi il più possibile dal giusto e sbagliato, dal vero o falso, ogni cosa ha un senso. Quante volte nella supervisione succede che uno parli di un paziente e descriva una situazione disastrosa, quindi con un’implicita coloritura di tipo negativo, di tipo colpevolizzante, responsabilizzante eccetera.

Per buona parte dei colleghi con cui tratto questo lavoro è come se i pazienti fossero nati il giorno in cui si sono conosciuti. Nel raccontare la storia di un caso, fanno qualche accenno alla storia remota del paziente che, il più delle volte, riguarda eventi che hanno avuto un grosso peso per il suo sviluppo e per la sua formazione ma che poi spesso vengono ignorati. Il mio presupposto è un altro, e la via d’accesso che facilita la comprensione è, per esempio, pensare: “Se questa creatura ha vissuto queste esperienze terrificanti in casa, che dovrebbe essere il luogo della sicurezza, il nido in cui si fonda il senso del sé, della confidenza, ma in effetti è stato un luogo pieno di angosce e paure, come ha strutturato il suo modo di concepire se stesso e il mondo?”. Il modo in cui oggi osservo quella persona non è altro che la risultante di come si è strutturato. Se non prendo in considerazione questo, che me ne faccio di quello che io vedo adesso? Mentre se lo prendo in considerazione dico: “Non può che essere così”. Quel ragazzo non può che trascurare il venire. È dura ma è così. Altrimenti vedo le ombre cinesi. Sono pochissime le persone abituate a tenere presente che noi siamo la narrazione della nostra storia. Il nostro comportamento non è altro che il narrare la nostra storia, come ci siamo andati facendo.

A questo proposito mi viene in mente una paziente che un giorno arriva da me stralunata, fuori dalla grazia di Dio, sconvolta. Aveva fatto un trasloco e aveva trovato il suo diario di quando era adolescente. Nel nostro lavoro d’analisi c’è stato un episodio della sua adolescenza che è stato il nostro episodio chiave cui facevamo riferimento come ad un punto importante. La cosa straordinaria è che in questo diario ritrovato la storia era molto diversa da come l’aveva raccontata. Una storia che, negli anni, si era trasformata nella memoria, per cui era crollata tutta l’impalcatura costruita sulla base di quel ricordo fondante. Era interessante allora cercare di recuperare quale potrebbe essere stata l’ipotesi di questa trasformazione della memoria. Che poi, tra parentesi, valeva di più la memoria vera del diario di quella artefatta, che era la deriva storica di una costruzione reattiva.

RC: Nel contesto individuale, in cui ci sono forti aspetti regressivi (penso alla terapia sul lettino), l’emergere di certi ricordi può forse essere facilitato. Nel gruppo, laddove ci sono altri partecipanti piuttosto attivi, per lo meno nella mia esperienza, nel riempire gli spazi, a volte ho la sensazione che non si dia il tempo e il modo, a chi sta raccontando, di poter accedere ad una dimensione più profonda.

LC: È vero, ma non dimenticare la potenza evocatrice che hanno le cose narrate dagli altri. In individuale sei tu che racconti: tu la dici e tu la senti. In gruppo c’è una molteplicità di stimoli, di input, di afferenze, cioè una ricchezza che in individuale va coltivata. In gruppo è più naturale.

Può essere parte della cultura del gruppo quella di soffermarsi su aspetti più narrativi e superficiali. Questa cosa può essere problematizzata. Un modo di risolvere la questione può essere quello di non porla sotto il profilo del giusto o sbagliato ma con la domanda: “Come mai questo soffermarsi? La mia impressione è che si rimanga in una serie di rimandi che non portano da nessuna parte. È interessante”. Senza fare ipotesi.

RC: Spesso mi viene spontaneo fare ipotesi o interpretazioni e mi chiedo se sia opportuno o meno esplicitarle in quel momento o lasciare che il gruppo lavori più da sé.

LC: Se il gruppo sta lavorando, lascialo un po’ lavorare finché non hai l’impressione che ci sia qualche punto su cui potersi fermare per non andare a vele spiegate. Poter dire: “Mi incuriosisce questo punto”. Richiamare l’attenzione su qualche cosa che è stata detta. Non c’è una risposta alla domanda: “Se ho qualcosa da dire lo dico o no?”. Se te ne fai un problema di metodo pasticci. Se senti che quella cosa ti incuriosisce fai benissimo a dirla, tanto, se ha radici, fiorisce, se no cade, non succede niente. La cosa più importante è che il gruppo si renda conto che tu li stai ascoltando, stai ascoltando quello che dicono, cerchi di dare valore, o meglio che le cose che dicono per te abbiano un valore. Questo è importantissimo. Loro si sentono autorizzati.

RC: A volte si hanno in mente teorie, metodi, come se si dovesse tendere ad un modello. Invece nella semplicità di queste tue parole mi arriva qualcosa di completamente diverso, di più ricco.

LC: Dipenderà dal fatto che io non ho regole, forse il mio motore è la curiosità, io sono un animale curioso, voglio capire, penso che le cose abbiano un senso.

Carmelo, mi sfugge qualcosa della tua domanda precedente, come se si fosse fermato a metà il discorso.

CDP: In realtà mi hai risposto… Credo che si possa diventare bravi terapeuti solo nella misura in cui si riesce a mettersi in discussione, in ascolto, ad incuriosirsi dell’altro. Se certi meccanismi, certe strutture di personalità, certe difficoltà del terapeuta in formazione inibiscono questo processo, indipendentemente dal maestro, non si avvierà nessun percorso trans-formativo.

LC: Devi uscire dal compito. Se esci dal compito, se non pensi che stai facendo un compito e quindi sei in una parte, se sei incuriosito e stai ascoltando vai avanti, non ti preoccupare, il tuo ascolto ti porta sicuramente in un punto in cui c’è un passaggio.

CDP: Ti porta in un campo generativo che può essere coltivabile.

Ti ho fatto questa domanda perché mi sto molto interrogando sulla qualità della nostra formazione. Nella nostra scuola di formazione, per esempio, ricevendo le valutazioni che gli allievi esprimono nei confronti di tutti i docenti, vedo che bravissimi colleghi hanno sempre delle valutazioni molto basse e altri colleghi mantengono nel tempo una valutazione alta. Allora mi viene spontaneo chiedermi perché questi colleghi bravi hanno valutazioni basse e quegli altri, altrettanto bravi, hanno valutazioni alte e costanti nel tempo?

LC: Io avrei una risposta… che rapporto hanno col gruppo? Tu terapeuta istituisci, col tuo modo di essere, un particolare tipo di rapporto.

Mi è venuta in mente una vecchia storia, me l’avrai sentita raccontare molte volte. Tanti anni fa, stiamo parlando del 1960, ad un certo punto, proprio perché c’era tutto un fiorire di nuove vie dell’analisi, stranamente vari centri in America e in Europa avevano fatto una ricerca che sembrava combinata, non lo era, ma era un’idea venuta a tutti: prendere in esame una serie di pazienti di varie tipologie di scuole e valutare l’esito della loro terapia sulla base di tre giudizi (nullo, mediocre, buono). La cosa straordinaria è che questi vari centri, nello stesso arco temporale, hanno avuto identici risultati statistici, che corrispondevano secondo me a quello che succede normalmente nelle relazioni umane, che possono essere inesistenti, mediocri o buone. Ancora un elemento fondante è l’esperienza che tu fai. Se è un’esperienza buona, di un buon rapporto, ti fa crescere. Se è un’esperienza di cattivo rapporto ha esiti negativi indipendentemente dal fatto che tu usi il lettino o altro. Dipende da quello che sei nel rapporto, che cosa passa non verbalmente. E quindi credo che dipenda dalla tipologia della relazione, non credo dipenda dalla competenza, dipende più dal carattere. Un determinato tipo di carattere può favorire o meno un certo tipo di relazione.

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Sui concetti di Ruolo e Gruppi – Cofano