Un anno di guerra

È da un anno che c’è la guerra in Europa e non solo non ne veniamo a capo, ma continuiamo a non capire perché ci sia e perché Putin stia mandando in rovina la Russia col consenso della Russia, almeno di una parte di essa. Ancora una volta il fenomeno Russia si offre come terreno utile a decifrare paradossi e avventure della psiche umana. Il paese sembrava essersi normalizzato, aver trovato il proprio posto nel mondo, aver aperto finestre di libertà e buona convivenza, invece no, faceva solo finta, i suoi demoni erano tutti lì pronti a esplodere. Non è la prima volta che la Russia manda in malora se stessa pur di realizzare una qualche fantasia che dia sollievo alla sua tragica inferiorità, al bisogno di certezze identitarie. Quando è in difficoltà per qualcosa tira fuori il suo eterno messianesimo che funziona sempre: i russi si mettono prontamente in riga, con spirito patriottico, qualunque sia l’ideologia in campo.

L’ultima trovata è la ricostituzione di un impero sovietico-zarista da imporre ai vicini e contrapporre all’odioso, depravato Occidente. L’Ucraina che non vuole più essere Santa Russia, ma vuole diventare Occidente è il bersaglio giusto su cui riversare sentimenti di rabbia e di rivalsa che in verità c’entrano poco con l’Ucraina. C’entrano invece molto con la frustrazione per il fallito esperimento sovietico, subito pesantemente dalla nazionalità russa e con la mancata ricognizione di ciò che quell’impero è davvero stato.

Psicologicamente viene da pensare che la Russia stia dando la caccia alla propria ombra, al proprio nemico interno, troppo oscuro per essere preso in mano. Ce lo conferma la violenza con cui la retorica di regime si accanisce su chiunque osi opporsi anche solo all’idea del grande destino che spetta alla Russia. Un tentativo goffo di soccorso e risarcimento a un popolo spaesato, ansioso di vendetta, costretto a vivere di menzogne e patriottismo, senza mai diventare adulto.

I revanscismi prendono sempre la stessa forma di fanatica onnipotenza e di attaccamento a un capo mistico che si assume le sacrosante rivendicazioni. In cambio ne ottiene legittimità a usare la forza per le proprie ambizioni personali: raggiungere i posteri attraverso i libri di storia, dove sarà celebrato come colui che ha riunificato le sacre terre dell’impero. Un incrocio di deliri, mentre ci sarebbe bisogno di un percorso di realtà. Esattamente quello che non si può fare. La psiche russa è stata plasmata in modo da fuggire la realtà, da non vederla mai. Non vuole svegliarsi, non vuole guardare quello che ha fatto a se stessa in 70 anni di totalitarismo, non vuole uscire dal giardino d’infanzia dov’era stata relegata. Si aggrappa a Putin pur di restare ancora un po’ nell’innocenza, di rimandare il momento in cui andrà a sbattere.

Ma perché la Russia si chiude in queste trappole che la mettono fuori dal tempo, dalla modernità, dallo sviluppo, dal diritto, dalla comunità internazionale? Forse perché il bisogno di conferme identitarie, di continuare a specchiarsi in un impero immaginifico che compensi l’insignificanza di una vita grama è più forte di tutto. La Russia è uscita dal secolo scorso incapace di guardare al futuro, di raccontare una storia nuova che non sia quella della propria invincibile superiorità. Vittima e complice di una tirannide durata troppo a lungo, non riesce a non riprodurla, a fare i conti con il proprio terribile passato e a voltare pagina.

C’è sempre una realtà parallela che lo impedisce, una narrazione che distorce e mistifica quello che non si può nominare, perché non sopporta semplici parole di verità. La montagna di menzogne e delitti compiuti non si sa più in nome di che cosa è sempre lì, irrisolta, non elaborata, camuffata da concetti che attengono al cielo dell’astrazione, senza mai toccare le ferite. Tutto pur di non sminuire la portata del grande progetto di riforma dell’umanità cui si erano dedicati a lungo e con grande impegno. A monte: un rapporto disturbato col potere, ammantato di spirito religioso più che civile.

La Russia è sempre stata riluttante ad accettare la politica come mediazione fra l’autorità e i cittadini, le sembrava di fare un torto alla missione escatologica dello stato. Ha sempre preferito lasciar perdere il controllo, relegare le istituzioni nel regno delle cose inutili e tenersi stretto il potere così com’era sempre stato: assoluto, indiscutibile, paternalistico, sacrale. E così ci risiamo. Dopo Gorbačëv e i tentativi degli anni Novanta di regolamentare la struttura della macchina statale si è tornati al puro arbitrio di un principe del cinquecento, di cui si scrutano i meandri mentali, per individuare quale sarà la direzione del vento. Intanto lui decide per 140 milioni di russi e, ormai, anche per noi. Del resto l’umore sociale russo era pronto da tempo per accogliere il ritorno della vecchia rassicurante dittatura totalitaria che libera da ogni responsabilità personale, dalla presa di coscienza, dalla fatica di pensare, ma non è andata bene.

Ai russi bastava la convinzione di essere ancora impero, per vivere in tranquilla passività, ignorando che la dittatura porta immancabilmente alla guerra. E infatti è arrivata. Putin ne aveva bisogno per stornare l’attenzione dal sottosviluppo, dalla diffusa indigenza degli immensi territori lontani dalla capitale, dalla mancanza di una qualunque prospettiva per il paese. Ma forse siamo all’ultimo atto dell’impero, forse il continuo, strisciante reclutamento finirà per aprire gli occhi di un popolo bendato. Intanto la guerra si sta portando via una parte della gioventù russa, quella che non è potuta fuggire all’estero. Ma a Putin questo non interessa. L’ha detto anche in televisione: meglio morire per la patria che perdersi nell’alcol e nella droga. Un implicito riconoscimento di quanto sia poco attraente oggi vivere in Russia.

Erika Klein