American Pastoral (Ewan Mc Gregor) – Recensione di Fulvia Ceccarelli
 

Ewan Mc Gregor, ispirandosi al romanzo di Philip Roth, Pastorale americana, libro cult degli anni novanta, vincitore del premio Pulitzer per la narrativa, è regista e interprete della parabola umana di Seymour Irving Levov, ebreo americano di Newark, New Jersey. Non voglio occuparmi dei presunti demeriti della regia, che secondo alcuni avrebbe fallito nella trasposizione cinematografica del romanzo, perché credo che, al netto delle critiche, la vicenda narrata da Mc Gregor offra comunque ottimi spunti di riflessione. Spalmata su un arco temporale di circa trent’anni, dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni settanta, ha come sfondo l’America con i suoi sogni, le sue contraddizioni, le sue inquietudini che si intrecciano inestricabilmente con la vita del protagonista, segnandola profondamente. “Lo svedese”, questo è il suo soprannome, incarna il sogno americano: seppur ebreo, è di carnagione chiara, ha capelli biondi, occhi azzurri e lineamenti delicati. È un fuoriclasse del basket, baseball e football. Le ragazze del college gli muoiono dietro e gli adulti lo adorano, perché i suoi trionfi sportivi lasciano intuire che possa esserci un futuro radioso anche per chi è nato povero, in un paese straniero. In una parola, Seymour rappresenta il futuro e fa dimenticare gli affanni della guerra. Suo padre, uomo duro con attitudine al comando, dopo anni di lavoro sfiancante, conquista il benessere diventando uno dei più grandi produttori di guanti del Paese. Ciononostante, pretende che i figli facciano la gavetta in fabbrica. Seymour si limita ad obbedire, senza tener minimamente conto dei propri desideri. Non dimentichiamoci che ha la stoffa del campione. Mentre suo fratello Jerry si oppone recisamente, scegliendo di fare il medico. E guarda caso sarà considerato il figlio ribelle. Seymour scala in breve tempo la gerarchia sociale: prende il comando dell’azienda, sposa miss New Jersey dalla quale avrà una figlia, Merry, amata e desiderata, e trasferirà la sua dimora in campagna, dove la moglie si dedicherà all’allevamento del bestiame e la piccola potrà crescere a contatto con la natura. Quello che Seymour ancora non sospetta è che per anni è vissuto in una bolla. Che lo ha indotto a pensare che ogni cosa sia perfettamente pianificabile e governabile, compresa la vita delle persone. E soprattutto, che ogni risultato sia sempre commisurato all’impegno profuso. Per cui, se lavori sodo, vieni premiato; se sei un datore di lavoro probo, conquisti la fiducia dei tuoi dipendenti; se sei leale, acquisisci rispettabilità. E se sei un buon genitore, avrai dei bravi figli. È in questo preciso punto che l’ingranaggio perfettamente oliato della sua vita si inceppa, diventando una scheggia impazzita; nell’incredulità generale, sua in particolare. Le prime crepe si intravedono quando Merry, una ragazzina come tante, forse anche un po’ bruttina e comunque al di sotto degli standard genitoriali – vero o no, questo era il pensiero indicibile che lei sentiva aleggiarle intorno o che semplicemente covava dentro – crescendo, da spensierata, diventa cupa, rancorosa, oppositiva. Specie con la madre. Col padre, invece, tenta invano l’arma della seduzione: un’estate, in macchina, gli chiede di baciarla come bacia la mamma. E lui, molto turbato dalla richiesta, l’allontana da sé bruscamente. Negli anni Merry matura una visione coartata della vita, arrivando a considerarla un vuoto lasso di tempo tra la nascita e la morte, come spesso accade a chi, avendo troppo, sperimenta l’assenza di desiderio. Parallelamente sviluppa una grave forma di balbuzie. I genitori non se ne capacitano e decidono di farla curare da una foniatra. La quale è fermamente convinta che la balbuzie, per quanto faticosa, abbia dei vantaggi secondari per Merry. Pensa anche che non sia facile essere figlia di due genitori perfetti: bellissimi, buoni e artefici della propria fortuna. È come se la piccola si fosse trovata davanti a un bivio: considerarsi parte integrante della loro favola o viceversa, sentendosene esclusa, invidiarli sferrando attacchi distruttivi. Infatti, non potendo eguagliare la madre in bellezza, la punisce imponendole il suo vistoso e imbarazzante difetto fisico, soprattutto in presenza di estrani. E non riuscendo a conquistare il padre con le malie della seduzione, lo castiga, costringendolo a preoccuparsi costantemente per lei. Leggendo tra le righe, il messaggio rivolto ai genitori sembra essere: cari genitori, anche a voi una cosa è riuscita male nella vita e quella cosa sono io! Da adolescente, Merry pianificherà la sua vendetta con la lucidità e la precisione di un cecchino, in un crescendo di attacchi, provocazioni, accuse, scelte estreme come il terrorismo. Una corsa spericolata verso l’autodistruzione, che travolge come un fiume in piena tutto ciò che le si para davanti. Inclusa la solidità della coppia genitoriale.

Seymour e la moglie affrontano la tragedia familiare in modo diametralmente opposto, incarnando due modelli genitoriali diversi. Mentre la madre si dispera sino a finire in una casa di cura e quando riemerge dal tunnel, decide di tagliare il cordone ombelicale con Merry, restituendole appieno la responsabilità della propria vita, delle proprie scelte con relative conseguenze; Seymour, invece, passerà la vita a interrogarsi su cosa abbia sbagliato con lei. E purtroppo senza trovare risposta. Posso azzardare un’ipotesi: non smettendo di considerarla una bambina, si carica di responsabilità che non gli appartengono più. Ne è consapevole persino Merry, che lo implora di dimenticarla. Invece lui si struggerà fino alla fine dei suoi giorni, con l’immagine indelebile di Merry che abita in tugurio, sporca, lacera e coi denti guasti, impressa nello sguardo.

I genitori, si sa, non hanno un libretto d’istruzioni e fanno appello alla propria esperienza di figli nel bene e nel male: nell’immaginario di Seymour, forse, esistevano solo figli accondiscendenti come lui, ai quali non era necessario dire dei no.

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American pastoral