FULL POWER

Pensieri sul film “Quanto Basta” di Francesco Falaschi

“Full power!”. Potere pieno: ovvero metticela tutta, tira fuori la parte viva di te!

È la frase che il protagonista del film, Arturo, un talentuoso cuoco, rivolge come incitamento a un ragazzo autistico, Guido, che sta imparando da lui l’arte della cucina. Il famoso chef, che per il suo temperamento irruento e in seguito al tradimento del suo socio in affari, finisce in carcere per percosse e si ritrova, per chiudere i conti con la giustizia, a svolgere due mesi di servizi socialmente utili presso una Comunità Terapeutica per ragazzi autistici. Inizialmente recalcitrante, si trova ben presto lui stesso coinvolto in un vero e proprio percorso di trasformazione, maturazione e cambiamento grazie a questi ragazzi e alla loro psicologa, Anna. Con la sua passione per la cucina Arturo riesce a coinvolgere soprattutto Guido, un giovane ragazzo con sindrome di Asperger, cioè una forma del tanto ultimamente nominato autismo, che con le sue rigidità, con i suoi gesti ripetitivi legati all’ordine, con le sue comunicazioni letterali che non consentono l’ironia e i doppi sensi, mette a dura prova l’impulsività e la poca pazienza di Arturo. Anna, la psicologa, funge da mediatrice e chiedendo ad Arturo di accompagnare Guido ad un Talent Show per giovani aspiranti cuochi, intravvede in questa esperienza una possibilità di aiuto reciproco tra i due. E così accade. Il viaggio diventa un graduale svelamento delle loro storie ferite da tanti eventi dolorosi accaduti e soprattutto diviene possibilità di accoglienza reciproca, l’inizio di una “affiliazione” che li porterà a raggiungere non il successo della vincita della gara di cucina, bensì la costruzione di un legame che da lì in poi continuerà a portare frutto e a rendere profondamente intrecciate loro vite.

Questo film a tratti molto poetico per i dolci paesaggi, le inquadrature, i silenzi, ha qualcosa al tempo stesso di forte perché arriva al cuore affrontando temi scottanti offrendo sguardi inusuali e preziosi lasciati spesso in ombra dalla società di oggi.

Innanzitutto lo sguardo sul carcere. In un sistema penale italiano in cui ancora la pena detentiva in carcere sembra l’unica soluzione, si dimentica spesso che in realtà è la possibilità di una riabilitazione e di un difficile, ma possibile, cambiamento della persona che commette errori – insieme a una necessaria responsabile riparazione del reato – la vera risposta alla giustizia: la “messa alla prova” presso i Servizi Sociali di Arturo non è finzione filmica, ma reale possibilità che dovrebbe essere sempre più contemplata nel sistema penale odierno.

Poi lo sguardo sulla psicologia e l’approccio alla “cura dell’altro”. La psicologia, giovane scienza o disciplina che dir si voglia, nata appena nel secolo scorso spesso viene ridotta alla stereotipata immagine del lettino e dello psicanalista “in grigio” che con il block notes e senza dire molte parole interpreta i sogni dei pazienti. Qui invece si lancia la provocazione di come sia possibile usare gli strumenti della psicoterapia, oltre che in un utile spazio di analisi, anche in un approccio di cura, che sia fatto dello “sporcarsi le mani”, dello stare vicino a chi soffre condividendo la quotidianità, partendo dal “fare insieme”, dal credere nelle risorse dell’altro ed alla possibilità di crescita delle persone seppur molto compromesse a livello relazionale ed emotivo. Bello il messaggio di questa psicologa Anna che è disposta a rinunciare ai classici impieghi classici svolti dagli psicologi e si “mischia” (nonostante alcuni aspetti siano eccessivamente estremizzati nel film) in mezzo ai ragazzi intercettandone i loro reali bisogni.

Infine, lo sguardo sulla bellezza e sulla fragilità umana. Arturo e Luigi non sono poi così diversi, traducono la sofferenza che hanno dentro in modo differenti, ma la ricchezza interiore che possiedono è la stessa, solo che l’hanno sepolta. Arturo attraverso l’alcool e la rabbia, Luigi con la chiusura, l’assenza di contatto fisico con gli altri e l’ossessione per il controllo: in fondo entrambi cercano di rimediare come possono a un senso di insicurezza, cercano di difendersi dal dolore delle ferite d’amore, dal non essersi sentiti compresi dai propri genitori oppure dall’esserne stati abbandonati.

Ma solo un nuovo e spontaneo “calore umano” possono offrire la possibilità di sperimentare legami, relazioni “umanizzanti” in cui la cura, l’attenzione, l’amore dell’altro ci rendono quell’uomo e quella donna che in fondo siamo, ma che abbiamo paura di essere. Relazioni possibili, come in questo film che dà speranza, nelle quali qualcuno si accorge che esistiamo, ci vede, ci stima e crede in noi.

E allora… “Full power” sia!

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Full Power