“La dama di picche”
(STORIA DI UNA POSSESSIONE)
Erica Klein

C’è uno scrittore dell’Ottocento che in Russia ha sempre avuto uno statuto quasi divino, perché considerato l’iniziatore della grande letteratura e perfino l’inventore della vera lingua letteraria, ma che in occidente è stato quasi ignorato.  Si tratta di Aleksandr Puškin. Non si è mai capito da noi che cosa avesse di speciale, e soprattutto di specificamente russo, questo scrittore. Altra cosa da Tolstoj e Dostoevskij, così tormentati, analitici, viscerali. Puškin è insieme a Gogol’ il meno psicologico dei russi.  Non indaga le emozioni, non le cerca nel loro farsi, non vuole entrare nei meandri, offre gli eventi bell’e pronti, prosciugati da ogni convulsione interiore. Eppure col suo stile compatto, laconico, disadorno, quasi protocollare, Puškin è un grande indagatore della realtà umana. Gli interessa quel livello dell’esistenza dove il Caso sembra non comportarsi da caso, cioè da evento caduto da fuori, ma sintonizzarsi con necessità profonde della personalità inconscia.

Nel racconto La dama di picche (1833) assistiamo increduli alla parabola di un uomo che, del tutto ignaro di se stesso, si consegna al proprio principio oscuro, senza lasciarsi vie di scampo e con la complicità di coincidenze esterne.

Siamo nella gelida Pietroburgo invernale nei primi Anni Trenta dell’Ottocento, in ambiente aristocratico, dove ufficiali nobili giocano sfrenatamente a carte per notti intere. La natura fatalistica del gioco, che mette in campo potenti forze imprevedibili, ha sempre offerto grandi soddisfazioni alle enormi pulsioni irrazionali. In più, all’epoca, in Russia le carte avevano ulteriori motivi di fascino compensatorio, fornivano l’unico momento di sfida all’ordinario in una vita rigidamente regolamentata dall’etichetta. Ogni atto della giornata pubblica e privata era subordinato alla ferrea dittatura del rango, così come voleva la disciplina dello zar Nicola I. Vigeva il culto della divisa; l’avanzamento da un’uniforme all’altra, dai pantaloni bianchi a quelli neri, da un nastro rosso a uno azzurro aveva una valenza quasi mistica. Le carte erano l’unica occasione per rompere le righe. Soprattutto per i nobili, ma fra gli ufficiali c’erano anche persone non nobili. Germann era uno di loro. Figlio di un tedesco russificato che gli aveva lasciato un piccolo capitale gelosamente custodito, partecipava con gli altri alle serate intorno al tavolo da gioco seguendo tutto con occhi febbrili, senza mai toccare le carte. A chi lo canzonava per la parsimonia rispondeva che “non poteva sacrificare il necessario nella speranza d’acquisire il superfluo”. Di poche parole e di pensieri ben inquadrati, amava esprimersi in formule di saggezza preconfezionata: “Calcolo, moderazione, attaccamento al lavoro, ecco le mie tre carte vincenti”. Fino alla fatidica sera dell’aneddoto. Un suo commilitone, tale Tomskij, di famiglia nobile, raccontò che sua nonna, una contessa ormai decrepita, ma un tempo fascinosa beltà, era venuta in possesso del segreto per vincere al gioco. Una volta, a Parigi, avendo perso un’intera fortuna, e poiché il marito, solitamente condiscendente, si era rifiutato in quell’occasione di pagarle il debito, aveva chiesto aiuto a un amico fidato, il conte di Saint-Germain. Da lui era venuta a conoscenza del segreto delle tre carte da giocare una dietro l’altra. Aveva così recuperato per intero la mostruosa perdita. Il fatto curioso era che la contessa, in seguito, pur avendo avuto quattro figli, tutti accaniti giocatori, aveva sempre tenuto per sé il segreto, tranne una volta. Di fronte a un giovane scapestrato che aveva perso tutto, chissà perché, si era lasciata impietosire e gli aveva rivelato le famose tre carte. Puntualmente erano uscite e tutto aveva funzionato a meraviglia, salvando il giovane dalla catastrofe.

Ce n’era abbastanza per mettere in moto la focosa fantasia di Germann, tenuta fino allora a bada da una sottile barriera di regole assennate. L’unilateralità della sua costruzione mette in luce tutta la fragilità della coscienza. Decide all’istante che quello poteva essere il colpo della sua vita, anzi bisognava agire in fretta, la vecchia contessa aveva ottantasette anni e da un momento all’altro poteva andare all’altro mondo, portandosi dietro il suo segreto. Occorre dire che giovani di estrazione non nobile come Germann avevano scarse possibilità di accedere al successo. L’avvento di Napoleone, l’uomo venuto dal nulla, sulla scena mondiale, aveva però aperto spazi di desiderio prima impensabili. L’imprevisto miracoloso era entrato nel circuito del possibile, dando corpo a sogni di riscatto sociale svincolati da ogni privilegio di casta. Una nuova visione si era fatta avanti in tutta Europa liberando energie e facilitando l’emergere di un tipo d’avventuriero moderno ansioso di rivalsa e di ricchezza. Uno di loro è Čičikov, il famoso protagonista di “Le anime morte” di Gogol’. Funzionario statale senza arte né parte, si mette in testa a un certo punto di diventare ricco possidente con una truffa. Venuto a sapere che lo Stato concedeva terre a chi poteva dimostrare di possedere un certo numero di schiavi, ha una pensata: fare il giro dei vari possidenti di campagna, comprare a prezzi stracciati gli elenchi dei contadini deceduti dopo l’ultimo censimento (le anime morte) quindi vivi agli effetti del fisco, presentarsi alle autorità con i regolari contratti di vendita e riscuotere. Naturalmente viene scoperto e denunciato da una vecchietta proprietaria che non riesce a capire perché sia tanto vantaggioso comprare dei morti, ma lui se la cava, riesce a fuggire e sparire con la sua trojka e nell’immensità degli spazi russi.

Germann percorre una strada diversa per aprirsi col denaro le porte della rispettabilità, è di un’altra pasta, non è un furfante come Čičikov, le linee guida del suo comportamento sono limpide, improntate a serietà, prudenza, ragionevolezza. L’unico inconveniente è quello di non essere minimamente al corrente della propria natura passionale, né dell’invidia sociale per gli aristocratici compagni, in definitiva dell’altro abitante che ospita in sé.

Si sa che se una grande idea ci afferra da fuori è solo perché all’interno di noi qualcosa le corrisponde e le muove incontro. Il racconto delle tre carte come una grande idea aveva sedotto la fantasia di Germann, costellando una disponibilità inconscia pronta a scattare. Impadronirsi del segreto diventa il suo unico progetto di vita, si butta tutto da quella parte, con una dedizione alla causa che non ammette repliche né distrazioni. Vaga assorto senza meta per la città e l’istinto lo porta davanti al palazzo della contessa, dove rimane a lungo cercando un appiglio per introdursi. La sorte gli dà una mano: a una delle finestre scorge una testolina di fanciulla intenta a ricamare. Eccolo l’aggancio. Attende che lei alzi gli occhi e lo noti. Rimarrà ore davanti a quella finestra, sotto i fiocchi di neve del cielo pietroburghese anche nei giorni successivi, in attesa che si instauri un contatto. Prima un incrociarsi di sguardi, poi un sorriso, poi una lettera clandestinamente recapitata, tutta piena di frasi sentimentali copiate da un romanzo francese a cui lei, Lisa, la pupilla della contessa, risponde con altri messaggi lanciati dalla finestra. Finalmente un appuntamento strategicamente architettato. Germann potrà entrare nel palazzo a tarda sera del tal giorno mentre lei e la contessa saranno a un ricevimento e la servitù addormentata. Segue una mappa dettagliata dell’interno per arrivare alla camera dove lei lo aspetterà. Naturalmente Germann non ci pensa proprio a raggiungerla, si ferma nella camera della contessa, dietro il paravento, in attesa che rimanga sola dopo aver congedato la serva che l’aiuta a disfarsi del vestito e dell’acconciatura.

Il tu per tu con la contessa non approda a nulla, la vecchia prima si spaventa, poi cade nell’inerzia. A nulla valgono le suppliche di Germann, il suo inginocchiarsi e spiegarle che lui non è uno sprecone, che avrebbe fatto tesoro del suo segreto, che anche i suoi figli e i figli dei figli le sarebbero stati eternamente grati. Prova allora con le cattive, la minaccia con la pistola, lei mostra iniziale agitazione, poi più nulla. Germann si accorge che è morta. Ma la storia non finisce qui. Il desiderio di Germann si è troppo allungato per desistere, ha preso il sopravvento su tutto il resto della personalità.  Parte la dimensione fantastica del racconto, perché solo così, col modulo surreale, Puškin riesce a seguire le peripezie della possessione. Oltretutto a questo punto Germann è troppo infelice, troppo incapace di sopportare se stesso per la conclusione ingloriosa dell’avventura. Si è lasciato maldestramente sfuggire la chiave della sua fortuna, e poi c’è un’altra preoccupazione di cui tener conto, un vago senso di colpa che s’intreccia con le sue credenze. Puškin ci dice che, “non avendo una vera fede, aveva una quantità di pregiudizi”, comincia a credere che la morta contessa abbia, a questo punto, un influsso negativo sulla sua vita. Prova a rimediare, a forzare il rapporto con lei oltre la morte. Si reca al suo funerale. Ma lui stesso dev’essere poco convinto della manovra, forse la sente falsa o forse inefficace, fatto sta che la maledizione è sempre lì, non immagina di essere lui a proiettarla. Quando si avvicina alla bara per l’ultimo saluto (nel rito ortodosso la bara rimane scoperchiata per tutta la cerimonia) gli pare che la morta lo guardi beffarda e gli strizzi l’occhio. Germann indietreggia inorridito, incespica e cade svenuto tra i sussurri della gente che ne deduce essere lui un figlio naturale della contessa, tenuto nascosto. Torna a casa stremato e si addormenta. Sogna, ma poi si risveglia e ha una visione. Sente l’uscio aprirsi davvero e un passo strascicato avanzare, pensa sia il suo attendente che torna a casa ubriaco come al solito. Entra invece una donna vestita di bianco che parla con voce ferma: “Sono venuta contro la mia volontà – dice la contessa – ma mi è stato ordinato di esaudire la tua preghiera. Tre, sette, asso in mano tua vinceranno di seguito, ma a patto che tu non giochi più di una volta nelle ventiquattr’ore e che poi in vita tua non giochi più. Ti perdono la mia morte, purché tu sposi la mia protetta”. L’allucinazione è in perfetto stile germanniano, un ottimo accordo che tiene conto delle sue esigenze e del suo carattere. Il bottino da accumulare tutto in una volta e poi mai più gli va benissimo, lui non è un giocatore assatanato come quegli smidollati dei suoi ufficiali nobili, ci sta dentro anche la sua proverbiale oculatezza, quanto a dover sposare Lisa, la richiesta gli sembra più che ragionevole ed è anche un modo per saldare il conto con l’oltraggio che le aveva inflitto e che in qualche angolino del suo animo lo lasciava inquieto. Dopotutto lui è una persona per bene. Le tre carte finalmente svelate diventano il suo Assoluto, la sua religione, si tratta solo di stabilire il dove e il quando. Il fatto che sia stato un morto a svelarle le rende ancora più affidabili, in relazione diretta col divino. Germann si consegna totalmente al pronostico del sogno. Passa le giornate bisbigliando da mattina a sera le tre carte, nel timore che gli sfuggano di mente.  Finalmente si decide: la sala da gioco affollata di alta società è in fondo a una fila di sontuose stanze piene di inservienti. E’ la fine del suo stato di minorità. “Permettetemi di giocare una carta” – chiede al presidente del banco. Il commilitone che l’accompagna, Narumov, si complimenta per la rottura della lunga quaresima, ma la cifra che punta è davvero spropositata, 47.000 rubli, l’intera eredità del padre, quando mai nessuno aveva messo più di 275 rubli per la prima puntata, si permette di far notare il presidente. Ma Germann è sicuro del fatto suo.

L’abbandonarsi all’inconscio gli offre l’opportunità che aspettava, insieme alla conferma di essere nel giusto, la carta esce davvero, ma a Germann non basta più, non è nelle condizioni di gestire il favore della sorte. Quel pizzico di umiltà da tenere in serbo anche quando il vento della fortuna ci fa volare in alto non è nelle sue corde. Passa completamente dalla parte dell’ombra, proprio nel momento in cui dovrebbe tenersi ben saldo al potere decisionale dell’Io per non subire il riflusso dell’onda. Il suo volere cosciente è annichilito dallo straripamento dell’ipertrofico desiderio infantile che sembra fare tutt’uno col destino, per premiarlo.  Si ripresenta l’indomani puntando il capitale iniziale più la vincita. La folla dei giocatori è tutta intorno a lui. Esce il sette fra lo stupore generale e lo spavento del presidente che teme la bancarotta. Germann a questo punto è già ricco, ma non si ferma, e non per avidità, né per rivalsa, ma perché si sente ora il dominatore delle forze occulte, che ha sfidato l’ignoto e ha vinto. E’ questa presunzione a perderlo?. L’inconscio smette di sostenerlo e lo afferra alle spalle. Quando il terzo giorno si ripresenta al gioco è talmente sicuro di sé da annunciare l’uscita dell’asso prima ancora di guardare la carta. Il sabotatore interno è entrato in azione. Qualcosa nella legge interna di Germann non ha funzionato, non ha sopportato l’eccesso di squilibrio, la completa destituzione dell’Io. Cade nella trappola che lui stesso si è teso. Al posto dell’asso esce la dama di picche, noto simbolo di malevolenza in cui, con orrore, riconosce di nuovo la vecchia che gli strizza l’occhiolino. Lancia un urlo e scivola nella pazzia.

E’ il finale insieme grottesco e crudele con cui Germann viene rimandato a se stesso, al suo bisogno forse di punirsi, ma non per la morte della vecchia, come lui s’immaginava, o per il voltafaccia a Lisa, bensì per l’assurda leggerezza, per la follia con cui aveva stracciato la propria vita appendendola alle fumosità di un aneddoto e poi di un sogno e forse anche per aver ignorato l’avvertimento dell’inconscio che già una volta si era fatto vivo sotto quella stessa forma.

Il destino individuale è una combinazione di leggi diverse e la pretesa di piegarlo al proprio volere è fuori dalla portata umana. Ciò che l’uomo può fare è tentare di coinvolgere nella disputa le diverse istanze che lo abitano, se ne è consapevole, o per lo meno fare in modo che non si escludano a vicenda, e sperare poi che il destino attirato dalla buona armonia interna gli sia fecondo. Di più non è dato, perché la morsa dell’imprevisto e del mistero che presiede alla nostra esistenza prima o poi s’incarica di scomporre il mosaico dei nostri progetti, ripristinando comunque la caoticità della vita.

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La dama di Picche