“You may say I’m a dreamer. But I’m not the only one”

Mi guardo intorno e vedo persone. Solo persone. Non musulmani, non cristiani né altro. Persone.

E’ un sabato pomeriggio di novembre, nel centro accoglienza dove collaboro. Sarebbe un sabato qualsiasi, se non fosse che dal mondo arrivano notizie che fanno pensare più a un bollettino di guerra che a una normale cronaca estera.

Oggi siamo qui assieme: l’equipe del centro ed i ragazzi ospitati. Quasi 170: 170 vite, 170 storie, 170 odissee. Si parla da qualche minuto per cercare tutti insieme un modo per prendere le distanze dalla violenza, dal terrorismo, da quel sapore di guerra che si respira nei telegiornali, nei giornali e nei commenti della gente, per strada e sui social network. I commenti di coloro che troppo spesso cavalcano l’onda, che generalizzano, che puntano il dito e che provando sentimenti troppo forti di rabbia e sdegno (siano essi giustificati o meno) sentono il bisogno e il diritto di potersi scagliare contro il loro “colpevole”.

L’incontro nasce da una proposta avanzata ai ragazzi al termine di un pranzo in mensa, il giorno dopo i fatti di Parigi. L’idea era semplice: “A noi la violenza e la paura non piacciono: se non piacciono nemmeno a voi perché non pensiamo assieme a qualcosa da fare per prendere le distanze da tutto questo? Per dire che a noi non vanno bene le cose così? Per dire che non parlano per noi le stragi, gli attentati, le bombe, gli omicidi. Non solo in Francia, ma anche in Nigeria, in Russia, in Mali, in Israele o in qualunque altro Paese succedano”. Loro ci sono stati, alcuni si sono entusiasmati, hanno accolto l’idea con un applauso sentito che ha coinvolto tutte le persone presenti.

E così eccoci qui.

Prima timidamente, poi con sempre maggiore convinzione, ciascuno cerca di dare il suo contributo. Io stesso, il direttore, gli operatori, gli ospiti. Ciascuno prende la parola e fa sentire la propria voce. Il discorso ci mette poco tempo a virare dalle idee pratiche (striscioni, bandiere, poesie) a temi più profondi. Ogni persona che alza la mano aggiunge un suo pezzettino, con fatica, superando le barriere della lingua e dell’imbarazzo. Chi timidamente e con parole stentate, chi con profondità e grandissime umanità e cultura, ogni voce aggiunge un tassello a un mosaico che mi sembra racchiudere il senso buono dell’essere umano. Quel senso profondo che, quando odio e paura attaccano, sa alzarsi per dire “no” con dignità, con fermezza e con mezzi diversi dal mettere in campo altro odio e altra paura.

Insieme immaginiamo.

Immaginiamo di poter creare qualcosa che possa rappresentare anche visivamente quello che forse qui dentro stiamo già creando da tempo, piccolo passo dopo piccolo passo: un incontro tra persone che nonostante le loro debolezze, le loro differenze, le loro storie spesso drammatiche, cercano di condividere un pezzetto di vita, ciascuno per le proprie ragioni, per poter essere tutti un pochino più felici.

Immaginiamo di disegnare una chiesa e una moschea, da cui escano persone che camminano vicine.

Immaginiamo bandiere di tutti i Paesi, mani di ogni colore, occhi, simboli di tutte le religioni. Tutti vicini. Non uguali, non fusi, non rinnegati, ma vicini l’un l’altro e disposti a restarci.

Immaginiamo che sia possibile dividere il cammino, vicini anche se diversi… uguali anche se diversi.

Immaginiamo pensieri – “quelli che usano l’odio sono quelli che ci hanno reso profughi” – citiamo i testi sacri – “chi uccide una vita uccide l’umanità intera” – ci rifacciamo alla voce dei social – “#notinmyname”.

Forse sono tutte cose banali, qualcuno potrà pensare. Forse. Forse è davvero così.

Però intanto qui e ora stiamo dimostrando che è possibile. Siamo insieme, cristiani, musulmani e atei. I nostri Paesi sono tanti: Italia, Mali, Costa D’Avorio, Guinea, Senegal, Albania, Kosovo, Bangladesh, Gambia, Togo, Nigeria, Burkina Faso, Eritrea e molti altri. Siamo qui e stiamo immaginando che ci sia altro nell’uomo oltre l’odio e oltre la paura. E stiamo dimostrando, nel piccolo, qui e ora, che è possibile farlo. Ma se è possibile qui, allora è possibile ovunque e in qualunque momento: ogni volta che una persona sa rompere il cerchio e dire “no” si apre una piccola porta per tutte le altre persone intorno, perché possano scegliere di provare a loro volta a essere il meglio che l’uomo ha da offrire. E forse è proprio nelle piccole cose banali che si possono fare queste scelte. Non nelle bombe o nei grandi gesti eroici. Non con una pistola, con un missile o con una pietra, ma con una stretta di mano, con un abbraccio, con il coraggio di guardare negli occhi le persone che abbiamo vicino e cominciare a vederle. Anche rischiando di essere colpiti. Anche rischiando di rimanere a terra. Sapendo che se succederà ne sarà valsa la pena.

Non so perché sto scrivendo queste righe. Non mi propongo profonde riflessioni su cosa si celi dietro a quanto sta succedendo o su quali meccanismi si attivino nell’uomo per cercare di dare ragione di tutto questo.  Mi trovo qui e mi rendo conto che concetti semplici, banali, quasi scontati come “no alla violenza, no al terrorismo, no all’odio” sono capiti e condivisi da tutti noi, ci avvicinano, ci uniscono. Forse davvero voglio solo testimoniare che è possibile che accada un momento simile. Anche se si trattasse solo di un momento, anche se sparisse in fretta come la neve. Forse perché dentro di me so che l’unica condizione perché possa davvero nascere un cambiamento è che chi vi è coinvolto creda che cambiare sia possibile. Per citare una frase che mi è molto cara: se “alla fine siamo tutti storie”, ecco, qui, ora, credo che stiamo cercando di rendere la nostra “una storia buona”. E io sono grato a chi la sta vivendo con me e sono grato di poterne fare parte.

Massimiliano Mariani

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