SOGNARE INSIEME UN SOGNO

Dania Cappellini e Julie Cunningham

 

 

Vivere è la cosa più rara al mondo.

La maggior parte della gente esiste, ecco tutto.

[Oscar Wilde]

“Periodicamente cerco di capire chi sono diventato, e sto diventando, come psicoanalista. Lo faccio scrivendo proprio di questo processo al meglio che posso”.

Con queste parole, non prive di una certa umiltà, Thomas Ogden apre, con quello che definisce un prologo “al posto di una prefazione”, il suo bel libro Vite non vissute. Qualcuno ha definito Ogden un artista della psicoanalisi (Benedetta Rinaldi, su Centro Studi di Psicologia e Letteratura) in quanto nei suoi lavori “cerca continuamente di chiarire il modo in cui lavora e la sua posizione, che è il tentativo di cogliere il più possibile i momenti vivi di una seduta attraverso la capacità dell’analista di sognare l’analisi”.

È certamente una delle figure più in vista del campo psicoanalitico contemporaneo, è condirettore del Center for the Advanced Studies of the Psychoses, membro della facoltà del San Francisco Psychoanalytic Institute e supervisore e analista al Psychoanalytic Institute of Northern California, nonché autore di numerosi altri libri.

In Vite non vissute, prendendo le mosse dal lavoro di Winnicott e Bion, Ogden mostra come una vita non vissuta possa essere riconquistata nell’esperienza dell’analisi, analizzando con dovizia di dialoghi “veri” e di casi il ruolo dell’intuizione nella pratica psicoanalitica e il processo di sviluppo di uno stile analitico unico e soggettivo.

Il cambiamento psicologico è l’obiettivo primo della terapia psicoanalitica per ogni terapeuta. Ma le strade che portano al traguardo sono molte, forse una per ogni analista. La sua strada parte da un assunto: “La psicoanalisi non è una terapia della parola ma una terapia della conversazione. L’esperienza terapeutica non è parlare a una persona, ma con una persona. La conversazione pronunciata entra in risonanza con una conversazione inconscia, in cui le due persone stanno pensando insieme. Pensare insieme è l’altra caratteristica essenziale della psicoanalisi che ho in mente”.

Ogden distingue tre tipi di pensiero: magico, onirico e trasformativo, anche se ciascuna modalità non va intesa come progressiva e a sé stante, bensì come un tutt’uno. Il pensiero magico si esprime attraverso fantasie onnipotenti che creano una realtà psichica più “vera” della realtà esterna. L’individuo finisce così per escludersi dal mondo esterno, difendendosi da esperienze reali che ritiene insopportabili, in una sorta di un interminabile autoinganno. Il pensiero onirico invece per Ogden è una modalità che funziona non solo nei sogni ma anche nello stato di veglia, è un’attività prevalentemente inconscia, la più profonda ed è all’origine della crescita psicologia autentica. Il pensiero trasformativo è infine l’attività che consente di creare nuovi modi di codificare l’esperienza.

Come si è detto, i “maestri” di Ogden sono Bion e Winnicott. “Per me – scrive Ogden – la reverie, il sogno della veglia, è l’esperienza clinica paradigmatica dell’intuizione della realtà psichica di un momento di un’analisi (…). Bion soppianta la consapevolezza dal suo ruolo centrale nel processo analitico e insedia al suo posto il lavoro (in gran parte inconscio) dell’analista di intuire la realtà psichica (inconscia) del momento presente, diventando una cosa sola con essa”.

Da Winnicott, Ogden recupera invece la nozione di “paura del crollo” del paziente. Tutto si riconduce al crollo nel legame madre-bambino: “Incapace di tollerare, da solo, le agonie primitive risultanti dal crollo nel legame con la madre, il bambino cortocircuita l’evento in modo da non sperimentarlo e lo sostituisce con difese di natura psicotica. Non facendo esperienza del crollo quando si verifica nell’infanzia, l’individuo crea uno stato psicologico nel quale vive nella paura di un crollo che è già avvenuto ma che egli non ha sperimentato. Suggerisco che la forza che guida il bisogno dell’individuo di trovare la causa della sua paura sia la sensazione che una parte della sua vita gli sia stata portata via e che ciò che gli è rimasto sia, in gran parte, una vita non vissuta”.

Tutto ciò nel libro è supportato, anche in modo avvincente, da esempi clinici di straordinaria ricchezza… Vite non vissute traccia una nuova via che gli analisti possono percorrere per utilizzare la nozione di verità nel lavoro clinico, così come nella lettura psicoanalitica delle opere di Kafka e Borges. Per questo sarà di grande interesse per gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti di orientamento psicoanalitico, ma anche per tutti coloro che sono interessati al mondo affascinante e ancora un po’ misterioso della psicoanalisi.

Le parole di Oscar Wilde all’inizio della nostra recensione (“Vivere è la cosa più rara al mondo”) ci hanno ricordato un bambino psicotico di 8 anni che un giorno mentre stava giocando disse: “Adesso capisco perché questo posto si chiama Il Vivaio. Perché è un posto dove si vive”. Penso che per il piccolo paziente vivere significava giocare liberamente con una persona che coglieva tutto quello che lui portava al gioco pronta alla reverie che Ogden descrive così bene nel suo libro. Chi lavora con bambini gravemente disturbati riconoscerà nelle parole di Ogden una comprensione di quanto il “giocare insieme” permette il “sognare insieme” usando fantasia basata sul reale. Secondo Ogden: “La coscienza nasce all’incrocio del reale e dell’immaginario. È solo quando riusciamo a distinguerli, permettendo allo stesso tempo che convivano dialogando l’uno con l’altro, che possiamo raggiungere l’autoconsapevolezza”. Avevamo imparato questo dai piccoli pazienti, ma le parole di Ogden ci hanno aiutato ancora una volta a organizzare la teoria in modo fresco e utilizzabile.

Scrive Ogden di un bisogno universale: “Mi sembra che una delle motivazioni principali, se non la motivazione principale, per un individuo che non ha sperimentato parti importanti di ciò che è accaduto nella sua vita precoce, è rivendicare quelle parti perdute di se stesso per sentirsi infine completo, comprendendo dentro di sé il più possibile la sua vita non vissuta”. Nel libro Ogden non parla specificamente di bambini, ma quello che scrive si può applicare anche a loro: nella vita di un bambino che non sa giocare e che non ha mai goduto di un gioco simbolico elaborato e diventato pensiero, la terapia darà la possibilità di conoscere delle capacità mai sperimentate e nel gioco vivere una parte della vita non vissuta.

E passando dai bambini alle persone anziane, ci è venuto in mente il bellissimo libro Invecchiare, una scoperta di Danielle Quinodoz che parla della psicoanalisi in età avanzata. L’autrice presenta l’esperienza di analisti che lavorano con persone anziane che scoprono ricchi mondi da esplorare e la possibilità di “rivendicare quelle parti perdute”, per dirlo con Ogden. La Quinodoz parla di “ricostruire la propria storia interiore” e nota che le persone anziani non pensano a richiedere una psicoterapia, ma poi descrive situazioni toccanti di persone che passano “dalla dolorosa solitudine alla ricchezza di essere se stessi”.

E finiamo con queste parole di Ogden che sembrano permeare tutto il suo libro: “L’idea che gli esseri umani siano spinti a un potente bisogno di verità ha per me ulteriori implicazioni. Il bisogno di verità non è una funzione di sorveglianza (per mantenersi onesti); è piuttosto l’espressione di un bisogno della libertà di pensare la realtà della propria esperienza che è essenziale per la psicoanalisi come processo terapeutico”.

Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi di Thomas H. Ogden, Raffaello Cortina Editore, 2016, pagg.230, € 19.00

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