TERAPEUTI IN FORMAZIONE

Gli allievi della Scuola di specializzazione del Ruolo Terapeutico sono tenuti a presentare, al termine di ogni anno accademico, un elaborato riferito alla propria esperienza formativa. All’interno di questo spazio ne ospiteremo alcuni.

 

 

“Primavera non bussa, lei entra sicura”

Martina Catellani

A tutti i compagni di viaggio (di una vita intera o di un’ora soltanto) che hanno avuto il coraggio e la pazienza di accogliere il mio divenire, senza cercare necessariamente di farmi aderire a una qualche definizione… Grazie per aver fatto insieme a me un bel giro nei bassifondi; si stava bene laggiù, tra tutti quei mostri! Via via che mi avvicinavo diventavano sempre meno spaventosi, ma senza tenervi per mano non sarei mai riuscita a guardarli in faccia.

“Vorrei pregarvi di avere pazienza

verso quanto nel vostro cuore vi si prospetta irrisolto

e di avere care le domande stesse”.

Rainer Maria Rilke

 

Non mi risulta semplice trovarmi dinnanzi a questo foglio bianco a esprimere un bilancio di questo secondo anno di scuola. Forse non mi è nemmeno espressamente richiesto un bilancio dell’esperienza vissuta, diciamo che avverto l’esigenza interiore di farlo. Sento il bisogno di dare una forma a ciò che provo e soprattutto avverto la necessità di fermarmi, scendere dalla giostra mentre è ancora in corsa e guardarmi per un attimo. Sono tante le emozioni che la scuola del Ruolo mi ha “messo dentro” anche in questo secondo anno, o forse semplicemente sono tanti gli echi e i richiami che ha avuto per me, per la mia storia personale.

Storia di un’adulta che si sente ancora troppo figlia, e per questo accetta di passare attraverso “quell’essere figlia” per poter diventare generativa. Generativa non tanto e non solo nei termini di figli propri, ma soprattutto generativa in termini di possibilità di amare, generativa di una propria identità, che non sia banalmente (e drammaticamente) un contrapporsi a qualcuno, ma un trovare la propria strada. Storia di una persona che sta scoprendo lentamente, passo dopo passo, una grande, banale, sconvolgente verità: possiamo vivere solo e soltanto la nostra vita, possiamo essere (o provare a essere) solo noi stessi. Tutto il resto, fuori di noi, non ci è dato esserlo; tutte le altre esistenze non ci è dato viverle. Con questa nuova consapevolezza provo, pian piano, a esercitarmi all’alterità. Mi torna alla mente il toccante seminario interno tenuto da Manicardi sul tema dell’invidia. Il monaco e priore della comunità di Bose riportava il grande dramma vissuto dall’invidioso: egli non riesce a vivere la propria vita, vive costantemente la vita degli altri, dalla quale dipende.

In questo secondo anno di Scuola mi sono sentita più volte “incontrata”; ho avuto accanto persone con ruoli diversi (docenti, colleghi) che hanno fatto da cassa di risonanza alle mie emozioni e mi hanno restituito con benevolenza (ma senza sconti!) le mie parti dolenti. È interessante per me stessa notare come mi sento accolta e incontrata proprio nei contesti in cui mi sento spesso anche molto scomoda (penso alla mia terapia personale, al mio “amorevole” e “spietato” gruppo di supervisione al Ruolo). Ritengo che la “scomodità” che spesso avverto costituisce un imprescindibile elemento di crescita. Sento profondamente, seppur con tutte le mie ambivalenze, di volermi vivere appieno questo percorso così importante anche per la mia crescita personale, accettando la mia bella dose quotidiana di fatica, assumendomi tutta la mia parte di responsabilità nel mio stare bene e nel mio stare male. Accetto la parte di fatica perché sento profondamente di avere sete, sete di conoscenza di me stessa, sete di scoprire ogni giorno la mia personale strada verso la salute, sete (e al contempo tanta paura) di percorrerla.

Questa sensazione di “scomodità” l’ho avvertita più volte portando il caso in supervisione; più volte ho sentito addosso tutto il peso del provare ad attraversare un’emozione dolorosa per potere poi stare meglio, fosse anche solo per prendere maggiore confidenza con le mie ferite. Più volte ho provato fastidio quando il gruppo, nel tentativo di stare con me, mi faceva domande, apriva su questioni cruciali. Questo mio sentimento di “fastidio”, che più volte si è manifestato anche con una sorta di atteggiamento scocciato, mi ha portata a interrogarmi tanto, anche nel corso della mia analisi personale (dove peraltro mi accade spesso la stessa cosa). È come se avvertissi il bisogno profondo di essere aiutata ma poi, proprio come una bambina, facessi i capricci e pestassi i piedi per la fatica necessaria per poter stare meglio. Ripenso a quanto detto durante una lezione teorica dalla dottoressa Montali riguardo al fatto che i capricci non sono per nulla “una stupidata da zittire sempre e comunque”, ma hanno una valenza importante, una loro dignità. Dico questo non per “psicologizzare” tutto, ma perché davvero sento che nel mio “fare i capricci” di questo periodo ci sia un grande significato. Credo ci sia in primo luogo un mio bisogno di tornare bambina (ma soprattutto finalmente un mio riuscirci), una necessità profonda di far vivere e rivivere tutte le mie parti “piccole”, bisognose di amore e di dipendenza dall’altro.

Quando penso alle mie parti “piccole”, bisognose di amore e di dipendenza mi viene spesso in mente F., la mia giovane paziente che soffre di anoressia e “vive di rabbia”. Nel corso di una seduta, dopo avermi parlato abbondantemente del proprio rapporto difficile con il cibo, in risposta ad alcune mie domande e ad alcuni miei tentativi di “aprire”, F. mi disse: “Ho paura che se mi abbandonassi al piacere del cibo non riuscirei più a fermarmi, proprio come mi succedeva anni fa! Ai tempi mangiavo tantissimo, ero in sovrappeso e ho subìto bullismo!” F. inizia così a narrarmi di un passato in cui consumava avidamente piatti di pastasciutta e nascondeva le torte per poterle mangiare tutte da sola in bagno. I racconti di F. mi aprono dentro una voragine: immagino lei bambina chiusa a chiave in una stanza mentre affonda voracemente mani e viso in una torta. Sento tutto il suo “buco interiore”, quel suo vuoto che ha cercato di colmare “riempiendolo” prima con il cibo e ora con una rabbia feroce che la tiene in vita e “copre” tutto il dolore, permettendole di non sentirlo interamente.

Immediatamente penso al mio bisogno; F. mi conduce verso la mia voragine interiore. Mi sento risucchiata viva, inghiottita dal mio stesso bisogno di amore, al quale non riesco ad abbandonarmi, perché temo che mi perderei nella sua vastità. In mezzo a questo vortice (che è un po’ mio, un po’ di F., un po’ figlio del nostro esserci incontrate come due esseri umani, come due anime fragili e forti) mi perdo, vago nei miei pensieri e pian piano ritrovo il mio bisogno, profondo e ben celato, di essere ancora un pochino feto, il mio bisogno di stare nell’utero materno ancora per un po’, “e il naufragar m’è dolce in questo mare…”.

Al Ruolo sto vivendo un’esperienza molto importante anche con i miei compagni; con alcuni di loro si è creato un rapporto di affetto profondo. Tra di noi esiste un “volerci bene” che non implica il frequentarsi assiduamente o il sentirsi sempre; un “volerci bene” che non significa dover condividere tutto e non presuppone il sapere (illusoriamente) tutto dell’altro. Sento che il nostro affetto ci porta ad “accontentarci” del pezzo di strada che stiamo facendo insieme, dove ognuno resta un individuo a sé stante, e proprio questo rimanere ognuno “se stesso” ci consente di entrare in relazione intima e profonda con gli altri.

Queste esperienze relazionali buone che sto vivendo con i miei compagni mi portano a riflettere anche su quanto ha detto il dottor Marcolini nel corso di una supervisione: “La salute psichica consiste nel trovare un buon equilibrio tra narcisismo e oggettualità”. Poter quindi abbandonarci all’altro, nel nostro bisogno di dipendenza, e poter poi ritornare nel nostro stare soli.

Con i miei compagni del secondo anno mi sono confrontata molto anche sulla nostra diversa posizione di quest’anno: ora non siamo più solo coloro che vengono accolti dagli altri, ma siamo anche chiamati in prima persona ad accogliere i colleghi del primo anno. Questo nuovo ruolo, questa nuova responsabilità (magari apparentemente banale) mi ha portata a fare tante riflessioni. Al riguardo mi è venuta spesso in mente l’immagine del genitore: quando una persona diventa genitore non smette in quel momento di essere figlio/a, ma da subito (dal primo istante) è chiamato/a a una responsabilità molto grande. Questa persona potrà provare a occupare il nuovo ruolo al meglio delle proprie possibilità, ma nel farlo porterà sempre con sé il proprio bagaglio di figlio/a, un bagaglio pieno di ferite, gioie, speranze, aspettative, desideri di riscatto. Con questo bagaglio farà il genitore, accoglierà, guiderà, darà regole e sanzioni.

Mi ha molto colpita l’osservazione del dottor Marcolini nel corso di una delle ultime supervisioni riguardo al narcisismo del caregiver. È narcisista quel caregiver che dice: “So tutto io, non ho bisogno di te per sapere!”. A questo riguardo mi viene in mente un intervento di Recalcati, in cui lo psicoterapeuta osservava quanto sia insopportabile un genitore che non accetta di imparare dai figli e di ereditare da loro una conoscenza. Sento molto caro questo tema, proprio per la mia storia personale. Ho dentro il vissuto di un padre molto rigido su ogni regola, molto severo in materia di norme, soprattutto morali, da rispettare. Questo mi ha sempre portata a vivere ogni figura autoritaria come il riproporsi di una legge paterna in cui qualsiasi “sgarro” viene punito inducendo un feroce senso di colpa e un profondo senso di vergogna. Sono rimasta molto colpita quando, nel corso di una lezione teorica, il dottor Merlini ha osservato che è possibile con il tempo imparare a vivere l’autorità non più come un sostituto paterno e ha aggiunto che spesso quello che porta a una crescita in alcuni pazienti è il non sottoporli a nessuna frustrazione, perché l’assenza di un super-io da attaccare li costringe pian piano ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte e della propria vita.

In questo senso posso dire che anche l’esperienza con i docenti sta costituendo per me una svolta importante nel mio rapporto interno con l’autorità: docenti che diventano dei maestri, capaci di farmi vivere e sentire sulla mia pelle tutto ciò che la scuola del Ruolo promuove a livello teorico nella relazione terapeuta-paziente. In particolar modo mi riferisco a questo: l’asimmetria di ruolo (tra paziente e terapeuta, tra allievo e docente) che però non implica un diverso grado di responsabilità e libertà tra le due persone. Le parole del dottor Erba mi vengono in aiuto: “Non più un terapeuta competente del funzionamento normale o patologico del soggetto paziente, non più un terapeuta esecutore di procedure predefinibili, non più un paziente oggetto di queste procedure, non più la responsabilità dell’uno sulle scelte e i comportamenti dell’altro. Invece, due persone con la stessa potenzialità di salute, di responsabilità, di libertà, resi diversi dalla diversità dei ruoli occupati e dal diverso grado di salute raggiunto nel personale percorso di vita”.

Prima di concludere il mio elaborato ritengo importante portare un’ultima riflessione. Sento il desiderio di condividere un altro aspetto della mia esperienza a Scuola: mi sto riferendo al tema dell’”amore”. Potrebbe sembrare riduttivo e banalizzante il mio tentativo di parlare di un tema così vasto e complesso, sul quale tanti letterati, filosofi e studiosi si sono da sempre arrovellati. Sento però la necessità di guardare questo tema rispetto a ciò che ho vissuto e maturato nel corso di questo mio viaggio (al Ruolo e dentro di me). Sento che tutto potrebbe alla fine ridursi a questo: il mio immenso bisogno di amore. Il mio bisogno di un utero che mi accolga e ri-accolga sempre, ma al contempo anche il mio bisogno di “venire al mondo” e aprirmi agli altri e alla vita. Il mio bisogno di mostrarmi fragile e irrisolta così come sono, ma anche il mio bisogno di conoscere parti di me attraverso l’incontro con l’altro.

Bisogni che sono poi diventati desideri e hanno permesso a me di diventare paziente, portando la mia domanda di cura a colei che ora è la mia terapeuta. Una domanda indubbiamente “malata” e da rettificare, ma estremamente importante, perché mi ha permesso di iniziare questo viaggio interiore e mi ha portata poi a bussare alla porta del Ruolo Terapeutico, dando vita a questa avventura.

Penso spesso alla definizione di “amore” data dal filosofo Mancini: “Stare nudo insieme a un altro nell’assoluta certezza che le tue fragilità non verranno usate contro di te”. Dentro di me, in profondità, sento tanto vera e potente questa immagine e la sento molto in linea anche rispetto a quanto avviene tra paziente e terapeuta: il paziente accetta l’asimmetria di ruolo e si mette a nudo di fronte al terapeuta perché si fida del fatto che lui non utilizzerà mai il potere conferitogli contro di lui.

Penso all’atto di fede che fa ogni paziente, quando accetta di diventare (o più semplicemente di essere) un paziente. Penso a tutto questo e mi commuovo. Mi commuovo di fronte al coraggio di chi ha la morte nel cuore ma sceglie la vita, accettando di “sputare sangue” per potere un giorno stare meglio, fidandosi della persona che gli tende la mano. “Compiamo piccoli atti quotidiani di fiducia – diceva Manicardi – restiamo vivi grazie a continui atti di fede”.

Al Ruolo sento di fare un’esperienza inedita di questo tipo di amore. Ho conosciuto un amore che fatico a trasmettere con le parole, ma vorrei comunque fare un tentativo. Non è quell’amore che ti dà tutto a patto che resti fedele alla sua dottrina; è quell’amore che ti lascia insaturo, che ti fa sentire totalmente i tuoi buchi, le tue mancanze, le tue inadeguatezze. È quell’amore che non ti illude con vane promesse salvifiche, ma ha la forza di una presenza e che ti dice: guarda in faccia il tuo demone, fai amicizia con lui. È quell’amore per il quale non semplicemente “vai bene anche così”, ma “vai bene proprio così”, e la scelta di cambiare spetta a te e a te soltanto, se ti senti insoddisfatto o sofferente laddove sei. È quell’amore che ama le tue domande, senza occuparsi delle tue risposte; che non si affanna nel cercare a tutti i costi di capirti, ma che ci tiene sempre ad incontrarti in modo autentico. È quell’amore che non fa al posto tuo il tuo pezzo di strada, ma non resta mai sadicamente a guardarti mentre sei schiacciato dal peso di uno zaino al momento troppo pesante per te, ma ti aiuta a portare lo zaino, mentre con le tue stesse gambe tu continui a camminare e che, pieno di fiducia, crede nella possibilità che un giorno quello zaino lo potrai portare da solo. Lo crede insieme a te, lo crede più di te, lo crede anche per te, quando tu ancora non riesci proprio a crederlo.

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Primavera non bussa, lei entra sicura