Un laboratorio per la prevenzione al bullismo
Un’esperienza all’interno della scuola
Vallj Vecchiato

Una regista e attrice di teatro che lavora nelle scuole mi contattò per chiedermi di collaborare ad un progetto da tenere nelle scuole per la prevenzione al bullismo. Livia, la regista, aveva già condotto l’anno precedente il laboratorio in varie scuole ma aveva avuto difficoltà nell’affrontare i conflitti che erano emersi tra gli alunni e con gli insegnanti e per questo mi contattò. Accettai.
Livia presentò agli insegnanti lo stesso progetto dell’anno precedente, cioè un laboratorio di sensibilizzazione sul fenomeno del bullismo per le scuole di 1° e 2° grado, l’unica differenza era che saremmo state in due a condurlo. Di fatto non fu così perché decidemmo che lei avrebbe presentato e condotto il progetto con tutte le sue scalette, obiettivi e sotto obiettivi mentre io mi sarei messa in una posizione di ascolto, libera di entrare là dove fossero emersi bisogni che necessitavano il mio intervento. Il progetto prevedeva 3 incontri per classe di 2 ore ciascuno ed era ideato come laboratorio esperienziale attraverso lavori di gruppo, il role paying, la drammatizzazione e il de-briefing sul lavoro svolto. L’obiettivo quindi era quello di sviluppare un pensiero critico attraverso un percorso di pratiche interattive, creative ed emotive che mettessero in risalto le motivazioni dei conflitti, ma anche le possibili strategie per la loro risoluzione. Con gli insegnanti delle scuole prescelte decidemmo di proporlo alle classi 5° della scuola primaria e alle 1° e 2° della scuola secondaria di 1° grado perché è proprio in quella fascia di età che si manifestano e si definiscono i primi tratti di personalità del bullo e della vittima.
Cominciammo con le classi 5°. Gli alunni parteciparono con curiosità e attenzione portando spesso situazioni vissute di piccoli atti di violenza e prepotenza che si verificavano nella stessa classe; potemmo così farli riflette sulle dinamiche messe in atto dai protagonisti ma anche sulle possibili strategie per risolvere i conflitti. In queste due classi quinte emersero soprattutto sentimenti di amicizia, di empatia ma anche di profonda riflessione. Ad esempio un ragazzino raccontò di aver preso in giro un suo compagno per più tempo ma che poi sentì che il compagno ne soffriva, a lui dispiacque e quindi smise. Questo fu un esempio che riportai più volte nelle altre classi per mostrare come un semplice sentimento di dispiacere avesse la forza di cambiare un comportamento offensivo.
Con le classi 1° il lavoro per me e la mia collega divenne più impegnativo. Attenzione scarsa, interesse poco, difficile farli parlare uno alla volta e senza urlare. Però qui si entrò subito nelle dinamiche conflittuali della classe. I ragazzi si accusarono a vicenda di aver picchiato o offeso, di aver provocato sofferenze e dolore. In queste due classi i comportamenti più aggressivi e da bulli erano delle ragazze verso altre ragazze o ragazzi più deboli. I maschi sostenevano che le femmine sono più astiose e portano rancore mentre loro sono più amichevoli e dopo la litigata recuperano l’amicizia. Il mio intervento fu di aiutarli a recuperare le emozioni che accompagnavano gli agiti, di comprensione delle dinamiche e di riconoscimento delle parti fragili di ognuno che se toccate possono diventare delle “ferite”. Qualcuno parlò della sua sofferenza e pianse, qualcuno mostrò la rabbia e la delusione per non essere stato aiutato dagli adulti, qualcuno cercò di consolare… L’attenzione e la partecipazione divennero totali e, anche attraverso il role playing e la drammatizzazione, potemmo riflettere insieme sui vissuti, sulle cause dei conflitti e sulle loro possibili risoluzioni.
I ragazzi delle 2° classi ci accolsero con comportamenti molto provocatori: c’era chi camminava sopra le panche messe in cerchio, chi mangiava le patatine, chi si sedeva dando le spalle, chi diceva che il lavoro non lo interessava o chi diceva che non si doveva scoreggiare davanti alle signore. In tutti gli incontri gli insegnanti titolari furono sempre presenti, intervenivano a mantenere la disciplina ma anche a dare un supporto nelle attività. La presenza dei docenti era fondamentale per noi perché ci permetteva di stare con i ragazzi in un rapporto dialogante e di ascolto senza dover uscire dal nostro ruolo. Con le seconde però, per poter svolgere il nostro lavoro, dovetti intervenire in modo preciso e definire il setting. Dissi che la scuola aveva deciso di proporre il laboratorio sul bullismo perché lo riteneva un momento formativo per tutti gli alunni; quindi loro avevano tre possibilità: restare e partecipare; restare senza partecipare, andare in classe con un insegnante. Una cosa non avrebbero potuto fare: impedire ai compagni, anche se fosse stato uno solo, di partecipare al laboratorio. Nessuno uscì. Cominciammo chiedendo di raccontare episodi di violenza o bullismo che erano capitati a loro. Una ragazza raccontò di essere stata presa in giro per tanto tempo da un compagno ma che poi aveva capito che lui lo faceva solo quando era in compagnia degli amici; ciò le fece capire che da solo era un “cagasotto”. Un giorno lo incrociò da solo, gli disse quello che pensava e lui smise di insultarla. Un altro ragazzo raccontò che dopo essere stato preso di mira da un gruppetto di bulli lo disse a suo padre, lui intervenne e le violenze finirono. Questi due esempi non fecero presa sui più facinorosi della classe. Loro sostenevano che è necessario farsi rispettare dagli altri… “se qualcuno ti picchia devi far vedere che sei più forte e picchiare di più”. Parlammo molto delle violenze provocate o subite, della rabbia, della prepotenza e l’impotenza; cercai di farli riflettere sul fatto che nessun bambino nasce bullo e neanche vittima ma lo diventa. La curiosità cominciò ad accendersi e qualcuno chiese: “Ma come si diventa bulli?” Risposi: “Le prime relazioni che un bambino vive con i propri genitori e nell’ambiente in cui cresce, diventano il ‘modello’ di comportamento che metterà in atto con gli altri, nella società. Se i genitori hanno usato la prepotenza e le botte per farsi ascoltare, il bambino imparerà che quello è il modello da seguire. È un modello in verticale che non lascia scampo: o ho il potere, o non ce l’ho; o sono carnefice o sono vittima”. Molti ragazzi si incupirono; qualche ragazzo cominciò ad aprirsi e raccontò delle botte prese dal padre anche senza motivo e della rabbia per non essersi potuto difendere. L’attenzione fu massima, tutti ascoltavano e a qualcuno scesero le lacrime. La commozione, forse per la prima volta, entrò in quei ragazzi e i vissuti, che fino ad allora erano rimasti inespressi, trovarono lo spazio per essere detti e ascoltati. Con queste due seconde il tempo dedicato al role playing e alla drammatizzazione fu molto poco perché in molti nacque il desiderio di raccontare e ascoltare e noi accogliemmo il loro bisogno.
Finalmente quei ragazzi poterono vivere una relazione nuova fatta di ascolto, comprensione, condivisione; relazione che permette a chi la vive di uscire dalla logica potenza/impotenza ed entrare in quella del dialogo e della condivisione.
A conclusione dell’esperienza sono stati somministrati dei questionari di gradimento ai ragazzi e alle insegnanti; gli esisti sono stati positivi ed hanno confermato l’importanza e l’utilità di questa attività laboratoriale di ascolto e di informazione.

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