SMETTO QUANDO VOGLIO – MASTERCLASS
Sei laureato, tu sei laureato! Sei il terzo, questa settimana. Siete inaffidabili… – dice uno sfasciacarrozze a un dipendente in prova. Ma no, ma che dice, non sono laureato… Va be’, si sono laureato. Ma è stato solo un errore di gioventù!
Questo breve scambio di battute, che ho tentato di ricostruire il più fedelmente possibile, riassume in sé il senso del film, in cui il giovane regista Sidney Sibilia, interrogandosi sul futuro della sua generazione, ci pone un quesito provocatorio: cosa potrebbe accadere a brillanti ricercatori e docenti universitari a contratto che, perduto il posto, sono stanchi di lavoretti mal pagati e al di sotto delle loro qualifiche, in call center e fast food? Sbrigliando la fantasia, preconizza uno scenario surreale, in cui bande criminali ad alto tasso di cultura si fanno strada nella malavita organizzata, a colpi di “pricipi attivi” e “strutture cristalline”. Dov’è finito il gergo malavitoso di una volta, le cui espressioni più sublimi erano: “gabbio” e “ferro” – sembra chiedersi disorientato il regista?
Pur non amando le saghe devo ammettere che anche Smetto quando voglio – Masterclass, sequel di Smetto quando voglio, è un film gradevole, dal ritmo incalzante. In cui i temi tristemente attuali del precariato e della mancanza di lavoro vengono affrontati con ironia graffiante e dunque da una posizione meno rassegnata. Lo sguardo impietoso di Sibilia ridicolizza un Paese, un tempo “di poeti, artisti e navigatori” che oggi svende cultura, meritocrazia e intelligenza. Altrimenti non accadrebbe che il destino di molti giovani brillanti sia perennemente in bilico a causa dei tagli ai fondi per la ricerca. Come accade nel film, in cui un manipolo di geniali ricercatori, perso il lavoro, tenta la scalata alla criminalità per pagarsi le bollette e concedersi il lusso di una lavastoviglie. La mente pensante della banda è un neurobiologo, il quale escogita un piano geniale: produrre e piazzare sul mercato una nuova smart drug. Che, non essendo in circolazione, è legale a tutti gli effetti. Accade però che, da dilettante del crimine qual è, pesti i piedi al boss che gestisce la piazza di spaccio, tale “Er Murena”, ex ingegnere navale prestato al malaffare. Come se non bastasse, il chimico che sintetizza la smart drug, per sperimentarne gli effetti su di sé, ne diviene dipendente e, catturato dalla polizia, svela il nome dei complici. Inutile dire che finiscono tutti in galera. Non solo. Il neurobiologo, in carcere, si guadagna da vivere insegnando rudimenti di chimica ai detenuti interessati al conseguimento del diploma. E poiché rischia di essere rimesso in libertà per buona condotta, medita di prolungare la carcerazione innescando una finta rissa. D’altronde lo stipendio gli serve, perché la sua compagna aspetta un figlio. Inaspettatamente, una giovane ispettrice di polizia gli propone un accordo sottobanco: rimettere insieme la banda; identificare la formula di una quarantina di smart drug in circolazione, per poterle inserire nella lista delle sostanze illegali e assicurarne i produttori alla giustizia. Se accetta, avrà diritto ad uno sconto di pena e i suoi amici-complici alla ripulitura della fedina penale. Sentendosi responsabile del guaio in cui li ha cacciati, accoglie la proposta.
Ora, se è pletorico sottolineare che la strada della criminalità non sia l’unica alternativa al precariato a vita, non lo è affatto ricordare che il lavoro concorre pesantemente a definire l’identità di una persona. Purtroppo, lo scenario della post modernità subisce la fascinazione dei falsi miti di istantaneità ed efficienza. In nome dei quali si chiude, si snellisce, si fonde, anziché valorizzare ciò che di unico vi è nelle persone. Di conseguenza la carriera, un tempo scandita da regole chiare, oggi rappresenta una traiettoria nebulosa. E il lavoro non funge più da perno attorno al quale costruire un progetto di vita relativamente stabile. Non solo. Da misura delle proprie capacità, per molti si è trasformato nella misura dei propri fallimenti. Così difficili da comunicare a chi ci sta vicino.
Inoltre, se fino a una cinquantina di anni fa succedere professionalmente ai padri era l’opzione più probabile, perché nessuno si sognava di chiedere ai figli che desideri avessero, oggi, che i nuovi genitori affettivi ed empatici si impegnano con tutte le loro forze a costruirli felici e speciali, paradossalmente è proprio la società a ignorarli. Con conseguenze devastanti in tempi di narcisismo ipertrofico e bassa tolleranza alla frustrazione. Se poi si aggiunge che la sensazione di precarietà diffusa non aiuta di certo a intravedere un futuro, l’esistenza per molti può apparire priva di senso. Come è accaduto qualche giorno fa a un trentenne di Udine, che si è tolto la vita perché il mondo non era in grado di apprezzarlo.
Una delle poche certezze dell’attuale momento storico è che bisogna essere ben coesi internamente per reggere i suoi urti. Come succede a quei giovani, pochissimi, che si inventano di sana pianta un lavoro, trasformando le difficoltà in impedimenti creativi.
Di seguito il trailer del film:
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