La Dea Fortuna (film, 2019)
di Ferzan Özpetek

Dopo aver percorso una ad una le enormi stanze vuote, dall’aspetto sinistro, di una villa opulenta per arredi e affreschi, in cui echeggiano le urla disperate di una bambina messa in punizione, la macchina da presa inquadra un quartiere della periferia romana di un caldo color ocra. In cui vivono Arturo e Alessandro, coppia gay in crisi, circondati dal calore dei vicini. Che, come spesso accade nei film di Ozpetek, rappresentano un microcosmo variopinto, multietnico, avvolgente e vitale. In cui ci si conosce più o meno tutti, ci si parla dai balconi, si cena insieme, si condividono gioie e sventure e si litiga a muso duro. In cui è naturale dare un occhio ai figli degli altri perché, come accadeva un tempo nelle case di ringhiera, i figli sono un po’ figli di tutti.

A turbare l’equilibrio già precario della coppia, provvede involontariamente Annamaria con i suoi due figli preadolescenti. Annamaria non è una persona qualsiasi: è la migliore amica di Alessandro. Forse in passato hanno avuto anche una storia, ma lei si è fatta da parte con discrezione, quando ha capito che ad Alessandro piaceva un altro. Dovendo fare degli accertamenti clinici per seri problemi di salute, la donna sente che i propri figli sono in buone mani solo con Arturo e Alessandro. Di cui si fida ciecamente. L’alternativa, per lei assolutamente impercorribile, sarebbe quella di affidarli a sua madre, vecchia nobildonna segaligna, dal volto duro e devastato dalle rughe. La signora, per intenderci, è quel genere di persona convinta che il carattere dei figli vada forgiato con punizioni fisiche esemplari. Ai limiti della crudeltà mentale, se necessario. Annamaria ne sa qualcosa, avendone fatta esperienza negli anni bui della fanciullezza.

Tra i numerosi spunti di riflessione che suggerisce il film, ne scelgo uno che ritengo di grande attualità per risonanza emotiva, etica e sociale. In soldoni, per educare due bambini rimasti senza madre, è preferibile una nonna “nazista” o una coppia stralunata di gay in crisi? E ancora, cos’è una famiglia? Quali caratteristiche imprescindibili deve possedere per poter essere definita tale?
Provo a inquadrare il problema senza cedere alle lusinghe di un tradizionalismo miope o di un progressismo purchessia. Che le famiglie arcobaleno esistano nel mondo reale è un dato di fatto e non un’utopia. Quindi, da terapeuta, penso che sia più utile attrezzarsi per aiutarle ad affrontare le sfide che la loro scelta comporta – perché di questo si tratta – al netto delle stigmatizzazioni morali e delle normalizzazioni improbabili. Personalmente preferisco parlare di famiglia “tradizionalmente intesa” piuttosto che di famiglia “normale”. Per intenderci, quella in cui esistono un padre e una madre che svolgono ruoli diversi in momenti diversi. Alla madre il compito di accogliere e decodificare le richieste apparentemente incomprensibili di un bambino in fasce, cui restituire non solo risposte ma anche un pensiero. Come ad esempio aiutarlo a comprendere che un certo malessere ha un nome e può essere alleviato. Tuttavia la diade fusionale madre – bambino non può durare all’infinito, pena la mancata emancipazione del piccolo. Ragion per cui è indispensabile che sulla scena faccia la sua apparizione il padre. Che aiuta il piccolo a separarsi dalla madre, per fare il suo ingresso in società. Cioè in contesti come il nido, la scuola materna, ecc. Il che comporta la frustrazione per la separazione e l’elaborazione di un lutto. Le figure parentali propongono un modello di maschile e femminile con cui maschi e femmine, rispettivamente, si identificano. E poi c’è l’amore oblativo, incondizionato, che rifugge dal ricatto morale. Che dei genitori, che abbiano superato lo stadio di figli, dovrebbero saper donare loro, per aiutarli a diventare sé stessi. Indipendentemente dal fatto che siano dello stesso sesso o di sessi diversi. La mia esperienza di terapeuta mi suggerisce che i danni maggiori che può causare un genitore rimandano soprattutto al disamore o all’amore malato. La presenza di genitori dello stesso sesso, orribilmente definiti 1 e 2, forse può creare confusione rispetto al concetto di maschile e femminile. Rispetto a cosa significhi essere uomo o donna. O a sentirsi in conflitto col proprio sesso biologico. E poi non dimentichiamoci che, seppur in maniera più sfumata, anche nelle famiglie tradizionalmente intese, spesso il padre ha più attitudini materne della madre. Che, caratterialmente, ha meno problemi a pronunciare quei famosi no che aiutano a crescere. Riassumendo, per crescere un figlio servono amore e senso di responsabilità. E queste caratteristiche prescindono dal sesso del genitore, a mio modo di vedere.

PS: piuttosto che far rimuovere i cartelloni pubblicitari del La Dea fortuna per vilipendio alla morale, come pare sia accaduto la settimana scorsa in un piccolo centro del nostro Bel paese, è preferibile ricordare che per portare sempre dentro di noi una persona speciale, basta fissarla intensamente con gli occhi ridotti a fessure e poi chiuderli di scatto. Solo così scenderà nel nostro cuore, per rimanerci sempre. Parola di Dea Fortuna.

Fulvia Ceccarelli

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La dea fortuna