Julieta (Pedro Almodovar) – Recensione di Fulvia Ceccarelli

 Credo che Almodovar, in questo film giudicato da molti deludente, non riuscito e poco credibile, usi l’iperbole per costringerci a riflettere su quanto possano essere distruttive certe modalità relazionali.
Un sipario color rosso fuoco, drappeggiato e pulsante come il cuore di Julieta, la protagonista del film, ci introduce nella vicenda. La donna è  decisa a lasciarsi il passato alle spalle, Madrid inclusa, per cominciare una nuova vita in Portogallo, accanto all’uomo che ama. Così, impacchettati suppellettili e ricordi in poche scatole di cartone, dà un’ultima occhiata alla casa semivuota. Il destino, però, ha in serbo per lei altri progetti. Infatti, per strada incontra casualmente Beatriz, amica d’infanzia di sua figlia Antia, di cui non ha più notizie da circa dodici anni. Esattamente da quando è partita per un periodo di meditazione all’interno di una comunità, chiedendo alla madre, con una fermezza che non ammette repliche, di non cercarla. Questa modalità francamente colpevolizzante, lascia Julieta senza parole, senza una spiegazione, impietrita e spaesata. Per qualche tempo le due donne rimangono legate unicamente da un triste rituale: un biglietto di auguri, senza una parola d’accompagnamento, che Antia invia alla madre nel giorno del proprio compleanno. Che Julieta contraccambia acquistando una torta importante con tanto di candeline e disponendosi ad una lunga quanto vana attesa. Poi il silenzio.
Da Beatriz, Julieta apprende che Antia è sposata, ha tre figli ed è serena. Che ha scelto di dare un taglio netto con il passato. Anche con lei, cui un tempo è stata legata sentimentalmente. Mentre la donna scopre una figlia che non conosceva, i ricordi dolorosi del passato riemergono prepotentemente. Lacerandola. Questa volta, però, decide di affrontarli. Infatti, abbandonati il progetto Portogallo e l’uomo che ama, supplicandolo di non farle domande, torna a vivere nella casa in cui abitava con Antia. Nel bel mezzo del trasloco, inizia a scrivere un diario, che è poi una lettera aperta alla figlia, cui decide di svelarsi. Le confida che la sua vita è costellata di sensi di colpa verso le persone conosciute e della cui sorte si sente responsabile. A partire da quando, molti anni addietro, rifiutandosi di prestare ascolto ad un uomo incontrato in treno, questi si suicida. Le parla della scarsa comprensione mostrata verso suo padre, da cui ha scelto di allontanarsi e a cui tuttavia rimprovera di essersi rifatto una vita accanto alla badante della madre. Le confessa la durezza riservata al marito – padre di Antia – cui non concede la possibilità di spiegare lo strano rapporto che intrattiene con la loro amica scultrice. Tanto che lui, per ripicca, esce in barca col mare in burrasca, trovandovi la morte. Le rivela il dispiacere di non aver saputo costruire un buon rapporto con lei, unica e adorata figlia che ha voluto preservare dalle sue personali fatiche esistenziali. Da ultimo le svela il senso di inadeguatezza per non aver saputo leggere le sue difficoltà, che ha preferito confidare a loro una comune amica piuttosto che a sua madre.
Ho letto che il regista voleva intitolare questo film Silencio. In effetti si tratta di una storia incentrata sulle conseguenze dell’incapacità o scelta di non parlarsi, quando le relazioni sono in affanno. Illudendosi che il silenzio abbia il potere magico di cancellare le difficoltà: se vengono taciute, non esistono. Ciò che accade, in realtà, è che tanto la chiusura verso gli altri quanto la brutalità di certe comunicazioni lasciano sul campo una scia di non detti. Che alimentano il senso di colpa, l’assunzione impropria di responsabilità, il progressivo allontanamento. I quali, rincorrendosi in un interminabile gioco di specchi, precipitano chi ne è coinvolto in una solitudine senza speranza. Credo che l’essenza dell’empatia stia nel riconoscimento e nel rispetto dei tempi dell’altro, ivi inclusi i silenzi. Perché la condivisione non è affatto un processo spontaneo: presuppone un rapporto maturo e profondo. Ed è preziosa proprio perché ci ricorda che, al di là delle latitudini e delle epoche storiche, le passioni dell’uomo non cambiano. Ciò che rattrista e fa gioire il suo animo è quel substrato comune o matrice umana che lega tra loro le generazioni.
Siamo creature relazionali. Tutto nella vita ce lo ricorda. Nasciamo da una relazione di coppia. Impariamo a pensare e a dare un nome ai nostri sentimenti all’interno della diade madre-bambino. Siamo abitati da una gruppalità interna frutto della stratificazione dei legami più significativi. Apprendiamo solo all’interno di una relazione, come ben sanno educatori, insegnanti e allenatori. Non solo. Tanto la filogenesi quanto la storia dell’umanità testimoniano il faticoso cammino per la conquista della dimensione sociale. Seppur in ambiti diversi. Mi riferisco alla ripartizione di compiti, alla cooperazione, al rispecchiamento, così fondamentale per la costruzione della propria identità. In una modulazione continua e complessa che ci rende parte di un tutto, pur preservando la nostra individualità.
A seguire il trailer del film